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“PIU’ in là”, dice il cuore, nel giorno di Pasqua. «Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va, né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto “più in là”». Non splendeva il sole nel cielo di Roma, come nella poesia di Eugenio Montale, ma non v’è dubbio che le immagini d’una piazza San Pietro a prima vista deserta rimandino, ancora una volta, “più in là”.

Il 27 marzo, davanti all’umanità ferita dal dramma della covid-19, in lutto per le migliaia di vite mietute dall’avanzata subdola ed impetuosa del virus, papa Francesco ha pregato nella piazza vuota come mai prima, e da vero Padre ha lanciato un ponte tra le due sponde del mondo: angoscia e terrore l’una, speranza e fede l’altra. Semplice, anzi semplicistico, interpretare quei fotogrammi come simbolo della solitudine, della sofferenza, del male. C’è qualcosa di diverso, di profondo. Per accorgersene, bastava volgere lo sguardo “più in là”, perché nel vuoto di quella piazza tutta l’umanità ascoltasse il silenzio, voce dell’alfabeto divino che come soffio dello Spirito scompiglia i capelli dell’anima. Viviamo un tempo come mai c’era capitato prima di vivere: famiglie spezzate dal contagio, strade vuote, negozi, fabbriche e scuole chiuse, persino chiese semideserte.

Anche la Pasqua non sarà quella solita. Quel che accade, poi, mette a nudo il sogno dell’immortalità, potentissimo nella società contemporanea che si riteneva capace di raggiungere la liberazione dell’uomo dalla morte. Ecco: in una società che vive di un’ybris così potente da sentirsi invulnerabile, la scoperta di questa fragilità è ancora più sconvolgente. Ma può essere utile. Scriveva Dietrich Bonhoeffer: «Comprendete l’ora della tempesta e del naufragio. È l’ora della inaudita prossimità di Dio, non della sua lontananza. Là dove tutte le altre sicurezze si infrangono e crollano e tutti i puntelli che reggevano la nostra esistenza sono rovinati uno dopo l’altro, là dove abbiamo dovuto imparare a rinunciare, proprio là si realizza questa prossimità di Dio, perché Dio sta per intervenire, vuol essere per noi sostegno e certezza. Questo ci vuole mostrare: quando tu lasci andare tutto, quando perdi e abbandoni ogni tua sicurezza, ecco, allora sei libero per Dio e totalmente sicuro in Lui».

Dunque, in un paradosso che è tale solo per chi si ferma alla superficie dei fatti, Dio c’è, più che mai. C’è in questo tempo in cui molti si chiedono perché permetta tanto male, perché lasci che negli ospedali si muoia senza nemmeno il conforto di una carezza. Dio c’è, non solo nei medici e negli infermieri, che combattono il male quasi a mani nude in quegli ospedali riattrezzati per l’emergenza (c’è da ripensare all’organizzazione della sanità italiana!), o nei tanti altri eroi senza nome che fanno andare avanti città e paesi nel mezzo della pandemia; Dio c’è, dicevo, proprio nel cuore di quella piazza. Non é assenza, ma presenza. Pioveva, il 27 marzo, a Roma, ed erano forse le lacrime di un Dio che piange su “quest’atomo opaco del male” che pretende di scrivere la storia con l’inchiostro dell’ingiustizia. Eloquenti le parole del Pontefice: «Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai 2 tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato».

Le lacrime di Pietro danno voce alla fede di Paolo che rammenta agli uomini di buona volontà che la «debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1, 25). Ce lo ha ricordato lo stesso Francesco, volendo alludere alla superbia di un mondo frenetico e troppo veloce, incapace di fermarsi, riflettere, pensare, volgere lo sguardo al cielo: «Non siamo autosufficienti, da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle», “siamo bisognosi di salvezza”. “Dov’è l’onnipotenza della scienza che, per quanto così avanzata non è riuscita con le sue sole forze a far fronte ad un’emergenza globale?». Ecco le contraddizioni della società contemporanea, che si crede perfetta ed onnipotente e perciò esalta la supremazia delle cose sulle persone, del denaro sull’uomo, dell’avere sull’essere, della tecnoscienza sul mistero, ma oggi si riscopre impaurita, fragile e – come sempre – solcata da illegalità, violenza, disuguaglianze e messa in crisi non da un esercito, ma da un qualcosa di infinitamente piccolo ed invisibile come un virus.

Eppure, proprio la disperazione è indice di nuovo inizio. Commenta Maria Zambrano: «Non si vede verso dove andare. Questa è dolorosa disperazione», «E la disperazione è pianto. Dell’uomo, e quindi di Dio. Forse questo pianto è già un andare oltre il dolore. E già l’inizio di un riscatto per questo cuore dell’Occidente «così torbido, così smarrito». Torna, insistente, il concetto dell’andare oltre, “più in là”. Il bisogno di invertire la rotta cambiando il lutto in gioia, asciugando le nostre lacrime.

Qui ed ora l’unica speranza che s’insegue è quella della ricchezza, più in là, oltre, c’è Altro. C’è la speranza cristiana, per alimentare la quale bisogna andare oltre, serve operare per una nuova era di pace e giustizia facendoci “un tesoro inesauribile nei cieli” (cfr Mt 19,21) prendendo in mano il presente trasformandolo, trasfigurandolo. L’Altro è il Cristo che risorge: l’unico modo di combattere la morte è la speranza della risurrezione. È una risposta che negli ultimi decenni è stata logorata dalla secolarizzazione, ma non ha perduto vigore e forza: è, e resta l’unico modo di combattere alla radice la morte e di tenere viva la speranza. Di fronte ad una globalizzazione appaltata al mercato, è probabilmente anche il momento, di pensare a modelli di sviluppo che rimetta l’uomo al centro ed indichi la giustizia sociale quale paradigma in ogni scelta, specialmente di finanza o di politica. E da subito: prestare a zero, senza garanzie, far circolare il denaro gratis, cancellare i debiti, agire con urgenza, perché la pandemia del coronavirus si propaga e con essa i fallimenti economici. Keynes a Versailles nel 1919, l’ex presidente della Bce Mario Draghi, oggi “bandiera” del capitalismo, ammoniscono che le conseguenze della pace possono essere più pericolose della guerra, che si rischia una crisi senza precedenti, nella quale potrebbero venir meno i beni fondamentali e far vacillare il patto tra popoli e Stati. Abbiamo di fronte la questione del futuro: non del riparo del presente, ma la necessità di un ripensamento profondo, di un riorientamento radicale.

Non si tratterà di chiudere una parentesi, ma di sapere ridisegnare insieme una convivenza nuova nella quale sobrietà, veglia reciproca, interesse a ciò che vale, attenzione alle fragilità, uso dei saperi e dei poteri, siano ritessuti tra le generazioni e le loro culture. Per affrontare una sfida del genere, da soli non bastiamo e non solo perché sentiamo il bisogno di stare insieme, ma perché siamo una comunità. Abbiamo bisogno di solidarietà, che il nostro vicino faccia qualcosa di positivo. In termini cristiani, è il riscatto della misericordia. Cambiare, allora. È l’occasione anche per dare la sveglia ad una Chiesa, a tratti intorpidita, perché torni ad essere luce, sale e lievito, voce profetica della Parola, per come diceva il cardinal Ratzinger prima di salire al soglio petrino: «Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che attraverso una fede illuminata e vissuta rendano Dio credibile in questo tempo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di lui ha oscurato l’immagine di Dio ed ha aperto la porta all’incredulità».

Il cristiano è differente dal mondo, e con la forza dei sacramenti e della grazia, deve annunciare e testimoniare Cristo, anche a costo della propria vita, come i martiri. Altro che deserto muto. In piazza San Pietro, piena all’inverosimile dell’affetto del mondo intero, rimbombava l’eco del Cristo che richiama dolcemente l’uomo ad essere uomo, a svincolarsi dai lacci della ricchezza, dalla schiavitù del potere e dalla follia di onnipotenza. Papa Francesco, chinandosi ai piedi del Cristo in croce, non ha avuto dubbi mentre implorava: «Siamo tutti sulla stessa barca. Da soli affondiamo. Salvaci dalla tempesta». Rivolgendosi al Figlio di Dio, parlava agli uomini ed alle donne. Per andare oltre. Tutti insieme. Più in là. È la Pasqua autentica, primavera dello spirito.

Di cuore, auguri.

Monsignor Vincenzo Bertolone

Arcivescovo della Diocesi Catanzaro Squillace

Presidente Conferenza episcopale calabra

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