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Il boss turco a Crotone temeva di finire nel mirino di un cecchino pochi giorni prima dell’attentato e dopo l’agguato ordinò ai suoi di reperire armi potenti in sua difesa


CROTONE – Sapeva che avrebbero tentato di ucciderlo. Il 2 marzo scorso, Baris Boyun, il presunto capo di un’organizzazione terroristica smantellata dalla Dda di Milano, diceva che qualcuno sapeva che lui era agli arresti domiciliari e che stanno cercando un “cecchino”. In effetti, il 18 marzo successivo sconosciuti spararono quattro colpi di pistola contro la sua abitazione nella centralissima via Vittorio Veneto, al civico 169. Secondo quanto raccontato dalla moglie, Ogze Buyukkaplan, alla Squadra Mobile di Crotone, che indaga sul tentato omicidio, ad un certo punto ci sarebbe stata un’interruzione della corrente. Scendendo le scale per riattivarla, avrebbe notato due uomini, a volto coperto, che l’avrebbero inseguita finché non è stata trascinata all’interno dell’appartamento dal marito. Gli attentatori hanno cominciato a far fuoco verso la porta dell’appartamento tentando di sfondarla a calci, per poi desistere quando la donna è uscita sul balcone per cercare aiuto.

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IL BOSS TURCO A CROTONE TEMEVA DI ESSERE NEL MIRINO DI UN CECCHINO

La reazione, come emerge dalle intercettazioni captate attraverso il braccialetto elettronico, non fu quella di rivolgersi alle forze dell’ordine ma di chiedere ai suoi sodali di recuperare le armi più potenti in sua difesa. In un colloquio intercettato, il turco dice al suo interlocutore che invierà un kalashnikov, due giubbotti antiproiettile e due pistole. Ma il gruppo sarebbe munito di esplosivi perché Boyun fa riferimento a una sparatoria avvenuta in Turchia tra i suoi “ragazzi” con la polizia turca. «Alla fine i ragazzi hanno lanciato una bomba a mano per paura che arrivasse la polizia». Dai brani intercettati verrebbe fuori non solo l’ampia dotazione di armi in Italia e in Europa ma anche in Turchia, dove il gruppo voleva «radere al suolo«, su ordine del capo, una fabbrica d’alluminio.

Si tratta di armi da sparo, sia ordinarie che da guerra (in quanto caratterizzate dalla capacità di sparare in modalità automatica, quali i kalàšnikof e gli uzi) ma anche di esplosivi. Armi che sarebbero importate in Italia e in altri Paesi europei, trasportate e vendute ad altre organizzazioni criminali, ma soprattutto usate dal gruppo per azioni intimidatorie, omicidi (anche su commissione) e per veri e propri attentati. Armi che servivano anche per la protezione di Boyun.

VIAGGIAVA SEMPRE CON UNA SCORTA ARMATA

Partiva da Crotone la scorta armata quando si muoveva il boss turco finito nella lista rossa dell’Interpol. L’indagine che l’altra notte ha portato a una retata in Italia e in Europa è scattata proprio in seguito all’arresto per armi dei suoi sodali avvenuto nell’ottobre scorso: Tolga Guetelpe, Fikri Faith Cancin e Kerem Akarsu, beccati al valico di Chiasso con due pistole con annessi caricatori e un giubbotto antiproiettile. Viaggiavano a bordo di una Honda “Hybrid” su cui furono trovati la carta d’identità turca e il permesso di soggiorno in Montenegro della compagna di Boyun. Sulla Honda c’era anche un faldone di documenti che riguardavano il capo. Nei supporti informatici sequestrati, la polizia reperì fotografie che lo ritraggono con un atteggiamento da leader, per esempio dietro la scrivania di un sontuoso studio privato, ma rinvenirono anche video di uomini con armi pesanti e materiale propagandistico di vario genere.

La Honda precedeva la Mercedes classe “G” blindata su cui viaggiava Boyun con la donna. Anche un anno prima, al momento del suo arresto a Rimini in esecuzione di un mandato emesso dal Tribunale di Istanbul (per omicidi, armi e associazione a delinquere), Boyun viaggiava con una scorta di tre uomini, in quel caso provenienti dalla Svizzera, dove opera un’altra cellula dell’organizzazione. Nel gennaio scorso gli inquirenti lo arrestarono a Milano per una pistola nascosta in un doppio fondo dell’auto. Tante armi per colpire. Ma anche per difendersi.

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