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Nicolino Grande Aracri

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CUTRO (CROTONE) – C’è chi dice di aver visto un telegramma con cui il boss Nicolino Grande Aracri comunica ai propri familiari di riferire ai suoi avvocati di andare a difenderlo nel processo Scacco Matto, quello in cui nelle settimane scorse è stato condannato dalla Corte di Cassazione, in via definitiva, all’ergastolo quale mandante di cinque dei sette omicidi contestati (anche se è caduta l’aggravante mafiosa), risalenti agli anni di piombo tra il ’99 e il 2000.

«Questa fase è finita», ci sarebbe scritto nel documento firmato dal capo di una cosca che comandava in mezza Calabria e parte dell’Emilia e della Lombardia. Forse perché i magistrati della Dda di Catanzaro non lo stanno andando più a sentire dopo che i primi racconti del mammasantissima, che aveva intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia, sono apparsi non del tutto convincenti.

Il boss deve aver raccontato qualcosa che stride con quanto risulta agli atti di importanti inchieste che lo hanno conclamato come vertice indiscusso di una nuova “provincia” di ‘ndrangheta, che audacemente ridefiniva la mappa della mafia calabrese in quanto il boss di Cutro rivendicava autonomia e pariteticità rispetto al crimine reggino.

Avevamo già scritto di una “frenata” della Dda che stava ancora valutando le prime “cantate”, alla ricerca dei riscontri. Ma ci sono altri elementi che inducono a ritenere che quel percorso si sia bloccato. E non è tanto per il mancato cambio di avvocati che di solito si registra per incompatibilità in occasione delle collaborazioni con la giustizia degli imputati o per il fatto che non siano state versate dichiarazioni nei processi in corso.

E’ stata, infatti, sospesa dalla Prefettura di Crotone la vigilanza ai familiari del boss che pure avevano rifiutato di sottoporsi al programma di protezione. Tutti elementi che denotano che quella “frenata” potrebbe essersi tramutata in uno stop.

Massimo il riserbo degli inquirenti, ma da quel poco che trapela pare che i pm della Dda guidata da Nicola Gratteri abbiano messo tra parentesi, per il momento, le prime rivelazioni che sembrano non essere del tutto attendibili. Se si tratti di una filosofica sospensione del giudizio, simile a quella degli scettici, sarà la Storia a dirlo.

Del resto, un precedente c’è. Il capo della cellula reggiana del clan, Nicolino Sarcone, che dopo la condanna a 15 anni nel processo Aemilia decise di pentirsi, fu ritenuto inattendibile dalla Dda di Bologna perché tendeva a “salvare” i fratelli che, dalle indagini successive, sono emersi come coloro che tenevano le fila dell’organizzazione essendo il vertice detenuto.

Un copione che si ripete? Difficile dirlo. Sta di fatto che i carabinieri che si piazzavano tutti i giorni al bivio di contrada Scarazze, quartier generale del clan, non si vedono più. La vigilanza è sospesa, come dicevamo, dopo che già i familiari del boss non hanno inteso rientrare nel programma di protezione. Spesso la dissociazione dai pentiti di mafia avviene con modalità eclatanti, che prevedono la pubblica stigmatizzazione del percorso collaborativo.

In questo caso il defilarsi dall’egida dello Stato si materializza in modo silente, forse data la caratura criminale di Grande Aracri. La notizia della sua collaborazione con la giustizia aveva suscitato clamore mediatico nazionale e aveva fatto tremare i palazzi del potere perché il boss aveva intrecciato sinergie occulte con il mondo di mezzo e vantava perfino relazioni massoniche in grado di condizionare l’esito di vicende giudiziarie, ma, soprattutto, era al vertice di un’organizzazione dalla forte vocazione affaristica con i cui capi andavano a braccetto anche grossi imprenditori, specie nel Nord Italia.

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