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Vincenza Ribecco

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CUTRO – «Mi ha detto che l’ex marito era estremamente geloso e aveva paura di ritrovarselo davanti casa e che avrebbe potuto ucciderla». Parola di Giovanna Vitaliano, medico condotto in servizio a San Leonardo di Cutro, tra le prime a intervenire, quel drammatico pomeriggio dello scorso 8 marzo, in quella casetta in pieno centro, in via dei Gesuiti, dove era stata appena uccisa la sua assistita Vincenza Ribecco.

Tra gli elementi che hanno portato al fermo nei confronti di Alfonso Diletto, fermo non validato dal gip del Tribunale di Crotone per insussistenza del pericolo di fuga anche se l’indagato resta in carcere per pericolo di reiterazione del reato, ci sono anche le dichiarazioni rese dalla dottoressa che conosceva bene “Cecè”, come veniva chiamata nel piccolo borgo la vittima. Le aveva consigliato di rivolgersi alle forze dell’ordine ma “Cecè” aveva assicurato di aver denunciato il suo ex ai carabinieri. Purtroppo non era vero. «L’ultima volta che l’ho visitata è stato a febbraio – ha detto la dottoressa ai militari – si era presentata allo studio manifestando estrema paura, collegata a un’importante stato d’ansia e malessere generale, dovuto al fatto che l’ex marito continuava a seguirla, a minacciarla, a telefonarle rendendole la vita sociale impossibile». La donna temeva di ritrovarsi nei pressi di casa il suo ex e che questi potesse ucciderla. E così è stato.

Alfonso Diletto

«Novella Cassandra», la definisce il gip Ciociola col suo inconfondibile tratto di penna. Diletto, che, assistito dall’avvocato Luigi Colacino, si è avvalso della facoltà di non rispondere nel corso dell’interrogatorio in carcere, il pomeriggio dell’8 marzo si è presentato con in tasca una pistola calibro 7.65 illegalmente detenuta e ha sparato dalla porta-finestra un colpo che ha trapassato il vetro ha raggiunto al cuore la vittima. Al pm Andrea Corvino, durante l’interrogatorio in cui a un certo punto è crollato dopo un iniziale «atteggiamento avveduto e spavaldo», avendo pure negato di sapere che l’ex moglie fosse morta, aveva detto di essersi armato perché temeva di trovare a casa il presunto – più che mai – amante di lei. È il motivo per cui resta in carcere, ovvero il pericolo di reiterazione del reato data l’«eccezionale acredine» verso questa terza persona, reale o putativa che fosse.

Resta, dunque, la pericolosità sociale di un uomo che ammette di aver sparato, sia pure non per uccidere, soltanto messo alle strette, dopo che i carabinieri gli fanno sapere che loro sono al corrente del fatto che a suo fratello, che vive nel Mantovano, subito dopo il delitto ha detto di aver «perso la testa» commettendo qualcosa di “brutto” riferito all’ex moglie. Il gip, a prescindere dall’atteggiamento collaborativo dell’indagato che ha fatto ritrovare l’arma, di cui s’è liberato al rientro, da San Leonardo a Cutro, gettandola in un dirupo dalla località San Giuliano, ritiene che egli sia in contatto con ambienti criminali, non avendo precisato chi gli abbia fornito la pistola tant’è che risponde anche di porto illegale e ricettazione della stessa oltre che di omicidio volontario aggravato da futili motivi e atti persecutori.

Atti persecutori, già. Di «clima di terrore» parla, infatti, il gip analizzando il fermo eseguito d’iniziativa dai carabinieri della Sezione operativa della Compagnia di Crotone, che hanno sentito due nipoti della donna. I timori della vittima, insomma, erano risaputi dai suoi parenti. Anzi, da tutta la piccola comunità di San Leonardo. La dottoressa ha aggiunto che “Cecè” le aveva confidato che era «di dominio pubblico» la persecuzione del suo ex, perché quel borgo, che s’affaccia su un golfo che è un incanto, è come «una grande famiglia».

Il foro provocato dal colpo di pistola

Forse ha ragione l’arcivescovo di Crotone e Santa Severina, monsignor Angelo Panzeta, che il giorno dei funerali ha detto che quel «gesto terribile s’innessta in una cultura della violenza di cui tutti siamo responsabili». Che il sacrificio della povera donna serva a qualcosa. Perché chi sa di uomini maltrattanti, parli. Perché le donne denuncino i compagni o mariti violenti. Perché sia attivata una rete territoriale dei servizi sociali. Perché, forse, “Cecè” si sarebbe potuta salvare.

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