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Mario Boffo

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La scacchiera come metafora della vita: Boffo nel suo romanzo ripercorre la storia del campione Leonardo di Bona nato a Cutro


«Allora…C’era una volta un Re. Era un Re buono, i suoi eserciti erano gli eserciti del bene e della luce. Un Re nero, cattivo, voleva catturarlo e ucciderlo, e spingeva i propri Pedoni per occupare il regno del Re bianco. Il Re bianco, allora, chiamò a difesa Alfieri e Cavalli, e li mandò incontro ai pezzi avversari. Cominciò una dura battaglia…».
È soltanto una delle fiabe grazie alle quali Leonardo di Bona imparò il “nobil giuoco” degli scacchi a Cutro, periferia del vicereame spagnolo di Napoli. Gliele raccontava lo zio Alfonso nella calura dei pomeriggi cutresi e lui ascoltava con occhi incantati. La curiosità avvinceva il piccolo Leonardo che, mossa dopo mossa, divenne un valente giocatore, al punto da sfidare e battere, nel 1575 a Madrid, dinanzi alla corte di re Filippo II, monsignor Ruy Lopez, una sorta di divinità degli scacchi dell’epoca, in una memorabile sfida rappresentata nel dipinto di Luigi Mussini.

Proprio un’immagine tratta dal quadro del 1871, che oggi fa parte della collezione del Monte dei Paschi di Siena, è la copertina del libro del diplomatico Mario Boffo, “Il cavaliero errante”, edito da Castelvecchi. Un raffinato romanzo storico che ripercorre le vicende del Puttino, come era stato ribattezzato il campione calabrese per le sue fattezze, e rappresenta gli scacchi come metafora della vita, come giusta filosofia per liberarsi da gravami e difficoltà.

Nel dipanarsi del racconto, Boffo – che proprio di recente ha ricevuto a Napoli il premio “Montale fuori di casa” per la Sezione Mediterraneo per i suoi 40 anni al servizio del Paese e le opere letterarie da lui composte – si addentra in ricostruzioni storiche degli eventi di un secolo controverso, a partire dalla battaglia di Lepanto. «Le navi turche comparvero all’orizzonte mentre l’alba di Lepanto si scioglieva in una calma e tersa giornata d’autunno: duecentosessanta navi assetate di sangue cristiano»: è il memorabile incipit che ci fa subito immergere nella congerie del tempo, in cui si muove con freddezza anche il corsaro calabrese Uccialì, al secolo Giovanni Dionigi Galeni, catturato a sedici anni dai saraceni e convertito all’Islam.

L’Autore immagina che Leonardo di Bona, che si imbrattò del sangue di Lepanto, con la spada in pugno si trovò di fronte il pirata e percepì il suo accento crotonese: «Alla malora, cane cristiano», mentre si metteva in salvo verso Costantinopoli. Nei racconti che lo zio Alfonso faceva al piccolo Leonardo, del resto, c’era anche un pirata saraceno che compiva incursioni in terra cristiana ma fu sconfitto da un re. Ma il rampollo di quella famiglia di giureconsulti divenne presto insofferente alla periferica Cutro. L’avventura inizia quando si trasferisce a Roma «con la determinazione di chi vuole conquistare l’universo e l’onirica illusione di chi vuole costruirlo a propria immagine».

Come il pedone, percorre case bianche e case nere nell’ideale scacchiera della vita. E si imbatte in salotti aristocratici, untuosi ciambellani e zingare dagli occhi azzurri. E, ovviamente, in circoli scacchistici. La sua fama aveva già varcato i confini della Calabria ma soltanto un giovane intemperante e ardimentoso avrebbe potuto lanciare una sfida così temeraria. «Solo un pazzo», scrive Boffo. Ruy Lopez de Segura era il giocatore più forte dell’epoca. Aveva elaborato una geniale strategia scacchistica, conosciuta come “apertura spagnola”. Ma nel suo manuale suggeriva espedienti di slealtà e malizia, come l’imporre all’avversario fastidi di visione e di seduta. Artifizi per prevalere. Fu forse per un riflesso negli occhi o per un piede sbilenco, oltre che perché era ancora troppo acerbo al cospetto dell’esperto giocatore spagnolo, che il Puttino perse due volte contro Lopez, che come strategia e modalità di gioco aveva anche l’astuzia. A Roma e a Napoli.

Il Puttino, invece, cercava nel gioco degli scacchi «ordine» e «purezza», esattamente come un altro grande scacchista del tempo, Giulio Cesare Polerio detto l’Abruzzese, compagno d’armi del calabrese a Lepanto, nella ricostruzione romanzata di Boffo.
Il Puttino giocherà in piedi, per non farsi ingannare dai riflessi dei finestroni dell’Escorial, dove era la reggia di Filippo II, il re “prudente”, in una Madrid «rumorosa e sanguigna». Arriva il grande giorno che Leonardo aveva atteso una vita. In quel sontuoso contesto Leonardo deve chinare il capo, per due volte, di fronte al monsignore che appariva più beffardo del solito, giocando “in casa”, tra i grandi di Spagna rievocati nel quadro di Mussini. Ma è una farsa. Quando, con segno di voler abbandonare la sala, il re si alza annoiato dopo che il Puttino aveva perso le prime partite perché la competizione sembrava ormai definita, arriva il colpo di scena.

«Prego la maestà vostra di non andar via, perché quello che ho fatto è stato ad arte, affinché ancor più rifulga il saper mio». Il Puttino vuole che la vittoria finale appaia più bella. Fa in modo di perdere le prime due partite e vince le tre consecutive. Mossa dopo mossa, il pubblico è intrigato e assiste alla vittoria del calabrese che, di fronte al re entusiasta, si ricorda delle sue origini. Come premio, oltre a trenta scudi d’oro e a una pelliccia di zibellino, il Puttino ottiene che per Cutro, tra le città della Calabria più “fedeli” al re spagnolo, vi sia l’esenzione dagli esosi tributi del Regno.
Buona parte della popolazione cutrese, stando anche ai dati del Sole24ore, ritiene che quella esenzione sia ancora in vigore. Ma questa è un’altra storia.

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