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Emanuele Mancuso

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VIBO VALENTIA – La sua voce squillante ha riecheggiato all’interno dell’aula bunker del nuovo palazzo di giustizia. Lo ha fatto per circa quasi un’ora. Parole scandite, nessun tentennamento, neanche sul banco degli imputati sedeva un suo parente. Aveva voglia di parlare, quasi di dire anche di più di quanto potesse dire, ma ha dovuto trattenersi ed attenersi alle domande delle parti, presidente del Tribunale compreso.

La giornata di ieri è stata, per certi versi, storica per la famiglia Mancuso: uno dei suoi rampolli, quell’Emanuele che con la droga ci sapeva fare, quasi fosse un esperto di botanica, ha, infatti, esordito come collaboratore di giustizia, all’interno di un procedimento penale.

Si tratta de processo che vede imputato il cugino Domenico Mancuso un uno stralcio dello storico processo “Dinasty” (2003 l’operazione) dove l’uomo era stato dichiarato incapace di intendere e volere salvo poi tornare ad essere giudicato per fatti risalenti ad circa 20 anni fa a seguito dell’esito diametralmente opposto di un’altra perizia. Emanuele Mancuso, assistito in aula dall’avvocato Antonia Nicolini, ha così parlato della sua decisione di collaborare con la Dda, dei suoi trascorsi e dei rapporti con l’imputato e di questi con altri esponenti della famiglia.

L’esame, condotto dal pubblico ministero della Distrettuale antimafia di Catanzaro, Andrea Mancuso (curiosa la circostanza – per come fatta risaltare dallo stesso pm in termini scherzosi – che lui stesso, il pentito e l’imputato portino lo stesso cognome e che ciò avrebbe finito col non rendere agevole il compito del trascrittore del verbale d’udienza), ha avuto inizio alle 10.20 con la fatidica domanda rivolta al teste collegato in conferenza audio-video da un sito protetto: “Quali sono stati gli aspetti che l’hanno portata a collaborare?”, la risposta è stata: «Più di un motivo. Quello scatenante è stata una divergenza all’interno della famiglia con riferimento all’inchiesta “Nemea” (contro il clan Soriano in cui lui faceva da tramite tra lo zio Luigi e Leone Soriano, ndr). Una vicenda nell’ambito della quale – ha riferito ancora – mi sono sentito usato dai miei congiunti».

Pur restando sul vago perché «molte cose sono ancora coperte da segreto», Emanuele Mancuso ha aggiunto che altri due motivi che hanno influito sulla sua decisione: da un lato il pentimento per «le azioni criminose commesse» e dall’altro la nascita della figlia, avvenuta il 25 giugno del 2018, esattamente sette giorni dopo aver comunicato alla Dda la sua volontà di “saltare il fosso”.

Per quanto concerne la prima circostanza: «Mi ero messo in mezzo in una situazione che non era di mia competenza, nel senso che mi trovavo dentro una vicenda estorsiva ai danni di Castagna e io non avevo alcun titolo per mediare tra Leone Soriano e la mia famiglia… Poi ho commesso altri reati: rapine, furti, estorsioni, spaccio e traffico di droga». Mentre per la seconda è stato lapidario affermando che avrebbe potuto riferire su episodi a suo giudizio ancora coperti da segreto investigativo (e su questo il pm ha concordato), anche un aneddoto l’ha voluto raccontare, e cioè la prima frase che ha pronunciato nel primo verbale di collaborazione: «Non sono io a tradire la ‘ndrangheta, ma è stata la ‘ndrangheta a tradire se stessa».

Terminati esame e controesame (quest’ultimo condotto dall’avvocato Milicia), il presidente del Tribunale, Giulio De Gregorio (a latere Marina Russo e Brigida Cavasino) ha rinviato il processo al 27 maggio per l’inizio della fase della discussione che porterà alla sentenza.

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