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L'aula Bunker dove si svolge il processo Rinascita Scott durante una delle udienze

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Prosegue senza soste la deposizione del pentito Bartolomeo Arena al processo nato dall’operazione Rinascita Scott (LEGGI LE ALTRE DICHIARAZIONI DI IERI e quelle RILASCIATE OGGI SUL TERREMOTO SEGUITO AL PENTIMENTO DI ANDREA MANTELLA).

Dichiarazioni importanti e compromettenti che hanno tirato in ballo anche personaggi pubblici di rilievo del territorio vibonese e calabrese in generale.

GIANFRANCO FERRANTE

Zio acquisito del collaboratore che afferma di conoscere dagli anni ’90: «Attualmente lavora nell’azienda di famiglia, il Cin Cin Bar, gestito dalla famiglia Esposito, ma di fatto è uno dei proprietari. Particolarmente attivo nel campo dell’usura e delle truffe e legato a Nicola Lo Bianco, figlio di Carmelo Sicarro”, a Pantaleone Mancuso alias Vetrinetta nonché a Damiano Vallelunga. Ha avuto un po’ di problemi con Andrea Mantella che minacciò di fargli saltare la cucina del locale facendogli arrivare le pentole all’ospedale».

Il pentito ha riferito inoltre di aver «saputo più recentemente (nel 2017) che Ferrante aveva anche rapporti con Luigi Mancuso tanto che era intervenuto in sua protezione dopo che il primo aveva un debito di 60mila euro con i Lo Bianco. A Vibo Ferrante, proprio per questi legami, forse contava più di Enzo Barba.

Per i Mancuso si è prodigato a cambiare assegni ma negli ultimi anni riceveva da loro del denaro per farli fruttare. Tant’è che deteneva 400mila euro liquidi per conto dei Mancuso stessi per come mi disse Antonio Macrì. Era una macchina di soldi».

C’erano anche persone che «ricevevano denaro da Ferrante» e i nomi fatti da Arena riguardano anche soggetti politici: «Per come lui mi riferì aveva dato soldi ad usura sia a Salvatore Bulzomì e sia al sindaco d’Agostino».

I SODALIZI RIVALI

L’ulteriore parte della deposizione di Bartolomeo Arena ha riguardato i rapporti di forza all’interno del contesto malavitoso vibonese, dal proprio gruppo di appartenenza e di quello rivale dei Pardea – facendo nomi e cognomi, anche di persone non imputate al processo – soffermandosi su ogni singola figura della quale ha menzionato non soltanto le parentele ma anche il ruolo ricoperto all’interno dell’uno o dell’altro sodalizio.

I PUGLIESE, RIVALI DA ELIMINARE

Bartolomeo Arena era legatissimo ai Pardea e ai suoi cugini “ma nell’ultimo anno ci eravamo allontanati, erano successi disguidi e “tragedie”. Dall’altro lato del gruppo c’erano i Pugliese (detti “Cassarola”) che volevano sottomettere i “Pardea Ranisi” perché erano stati “i mandanti dell’uccisione di Cecchino Pugliese, fratello di Rosario Pugliese, e quest’ultimo avevano ucciso Francesco Antonio Pardea (il grande).

E così, nel 2019, Francesco Antonio Pardea “voleva eliminare Rosario Pugliese perché lo riteneva il responsabile dell’uccisione proprio dello zio omonimo e soprattutto perché la famiglia voleva riprendere potere e prestigio su Vibo Valentia. Tra l’altro, Rosario Pugliese sarebbe stato sicuramente ucciso ma l’ho salvato io iniziando la mia collaborazione con la Dda. Ma non mi andava di partecipare alla sua uccisione e sono contento che non sia avvenuta”.

Francesco Antonio Pardea, tuttavia, non sarebbe l’unico a far fuori la vecchia guardia: “Domenico “Mommo” Macrì aveva in proposito di ammazzare Paolino Lo Bianco, tant’è che diceva di avere nascosta una pistola al cimitero per utilizzarla a tal scopo, mentre Salvatore Morelli voleva fare lo stesso con Filippo Catania ma non so per quale motivo”.

LA SIMULAZIONE DI SPARIZIONE

Ad un certo punto, il 30 aprile del 2019, Bartolomeo Arena e Francesco Antonio Pardea spariscono nel nulla. L’auto viene rinvenuta allo svincolo dell’Angitola. Anche se inizialmente si era pensato ad una lupara bianca, alcuni aspetti avevano fatto pensare ad un allontanamento volontario. Si rifaranno infatti vivi dopo un mese. Ma in quel tempo molte cose sono successe.

Racconta il collaboratore: “Pardea aveva appreso dell’imminenza di un’operazione su Vibo ed era convinto che sarebbe rimasto colpito da un’ordinanza cautelare a seguito delle dichiarazioni di Mantella. E così un giorno mi disse: “Sai che facciamo? Ce ne andiamo entrambi, tutti credono che siamo scomparsi, anche perché mio zio e tuo padre erano stati vittime di lupara bianca, e invece andiamo al Nord a sistemarci le nostre cose. Lì avevamo iniziato ad avere dei contatti con gente dell’area di Nerviano (Mi) perché spedivamo la marijuana per la vendita. Ci saremmo creati una base per lo spaccio, anche se Pardea aveva già altre intenzioni, che compresi quando arrivai lì, vale a dire aprire una Locale di ’ndrangheta”.

I due lasciarono quindi l’auto al bivio dell’Angitola, dove li venne a prendere “un ragazzo che ci mandò Mario De Rito. Ma prima di sparire, Pardea andò da un avvocato per capire quali sarebbero state le ripercussioni giudiziarie per la violazione della sorveglianza”.

Nerviano rientrava nella Locale di Seregno ma era tuttavia “libera” anche se “il permesso l’avrebbe dovuto concedere Leonardo Prestia, nominato da Vincenzo Gallace di Guardavalle; ne parlammo anche con Filippo Grillo e per capire se la cosa era fattibile e lui rispose che ne avrebbe discusso con lo zio”. Mentre con Demetrio Quattrone, “affiliato della cosca De Stefano, e legatissimo a Carmine”, il discorso ruotò attorno agli affari: “Ci aveva riferito che potevamo ottenere finanziamenti, perché Filippo Grillo aveva individuato un canale col Sud America”.

Con i due spariti nel nulla, e senza avvisare alcuno del gruppo, i loro sodali stavano per scatenare una guerra: “Sì – racconta ancora Arena -, perché Domenico Camillò e Domenico Macrì, insieme a Michele Pugliese Carchedi, stavano per uccidere Paolo Lo Bianco in quanto lo ritenevano responsabile della nostra sparizione”.

Al loro ritorno, dopo un mese, il sodalizio si scisse nuovamente: “Io e Pardea abbiamo “rimpiazzato” gli altri ragazzi (quello del gruppo di Macrì, ndr) ma ce ne siamo stati più defilati, pur essendo della stessa “famiglia””.

LA COLLABORAZIONE

Erano successi alcuni eventi poco prima dell’avvio della collaborazione di Arena con la Dda: la nascita del figlio con la conseguente necessità di allontanarlo da quei contesti violenti, l’avvicinamento di Pardea ai Sangregoresi e ai Mancuso e il timore di essere ucciso: “Sapevo che i Pardea si rispettavano con i sangregoresi, ma non sapevo che in realtà erano legati a filo doppio da anni e non da poco, e questa cosa non la presi bene (perché il collaboratore li ritiene tra i responsabili dell’uccisione del padre, ndr). Poim Francesco Antonio Pardea iniziò ad avvicinarsi ad esponenti dei Mancuso, in particolare ad uno dei Gallone, famiglia vicina a Luigi Mancuso”.

E tutti questi cambiamenti lo portarono a capire che “avrei dovuto guardarmi anche dai Pardea stessi perché forse in passato qualche regia occulta l’avevano avuta”. A gettare benzina sul fuoco “era Mommo Macrì che metteva zizzania tra me e Francesco Antonio Pardea al quale diceva che la mia era una famiglia che era sempre stata alleata dei Fortuna. Tra l’altro una volta, nel 2017, per proteggere Mommo, mi avevano sparato insieme a Domenico Camillò e ad Antonio Macrì (il padre, ndr).

IL FERIMENTO A NAZZARENO PUGLIESE

Il 27 settembre del 2017 “Macrì sparò a Nazzareno Pugliese, nipote di Rosario, all’Affaccio. “Mommo” mi venne a raccontare il fatto, al ché gli chiesi il motivo e lui mi rispose che l’aveva guardato male. Pertanto cercai di mettermi in contatto con Pardea ma ci riuscì solo tarda sera, quindi avvisai Antonio Macrì (padre di Mommo) e Giuseppe Camillò e ci mettemmo in auto per cercare di intercettare Cassarola. Ci dissero di averlo visto nei pressi del Despar, vicino casa di Mommo e lì, quindi, ci recammo. In effetti, Rosario Pugliese era sul posto, ad un tratto ci notò e ci seguì; noi facemmo una manovra e ce lo ritrovammo di fronte. Proprio mentre per scendere, pronto a spararci, in quel momento passò una signora dal Despar e per noi fu l’occasione per allontanarci, sentimmo i colpi ma non fummo colpiti”.

Domenico Macrì, una volta appreso quanto avvenuto “si sentì in colpa e andò all’Affaccio a sparare alle case dei Pugliese; qualche giorno dopo Domenico Camillò e Luigi Federici commisero la sparatoria al circolo “Il Gallo”.

I GIAMBORINO

“Giovanni Giamborino lo conoscevo solo di vista, so che era un vecchio ’ndranghetista della vecchia Locale di Piscopio e che a Roma gestiva un noleggio taxi oltre ad essere stato l’autista di Saverio Razionale. Ricordo che stava costruendo un edificio nei pressi del Cin Cin Bar e che diversi soldi glieli aveva dati proprio Razionale”.

Della vecchia Locale “facevano parte anche Fiore Giamborino, Pietro Giamborino, suo padre, Antonio e Giovanni Lo Giudice. Di Pietro Giamborino, politico molto influente negli anni 2000 (imputato in due filoni di Rinascita-Scott”, ndr), so che era ’ndranghetista perché me lo disse mio zio Domenico Camillò. Una volta andammo nel suo ufficio di Piazza Morelli, a Vibo, per trovare una sistemazione a mio cugino Michele Camillò e lui glielo trovò presso una ditta che faceva porte blindate, Arena-Lo Gatto, a Vena di Ionadi. Giamborino era un uomo d’onore e sempre mio zio Domenico mi disse che al tempo gli fu presentato come tale. Pardea in seguito mi aveva riferito che sempre Giamborino si era messo a disposizione con i piscopisani quando hanno formato la nuova Locale”.

E sulle elezioni: “Quando è salito Giamborino, l’hanno portato un po’ da tutte le consorterie vibonesi a poi è uscito di scena. Era appoggiato perché stiamo pur sempre parlando di una persona battezzata dalla ’ndrangheta. Per quanto so era sostenuto tra la fine degli anni ’90 e i primi del 2000”.

Successivamente ha ricordato un episodio avvenuto in piazza Municipio con protagonista l’imputato: “Una volta ha fatto un comizio in piazza Municipio, e all’epoca si contendeva il posto con Domenico Antonio Basile, entrambi si bisticciarono in presenza di tutta quella gente e ad un certo punto minacciò Basile di prenderlo a coltellate davanti a tutti”.

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