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Il Tribunale di Catanzaro, sede della Corte d'assise d'appello

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VIBO VALENTIA – Il 29 novembre del 2022 la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro aveva confermato il verdetto di primo grado del gup di Vibo che ha scagionato dall’accusa di omicidio premeditato in concorso e distruzione del cadavere del 49enne di Vena Superiore, Nicola Colloca, la moglie Caterina Gentile, di 52 anni, e il figlio Luciano Colloca (30).

Era stato uno dei casi investigativi e giudiziari più controversi almeno degli ultimi 20 anni, conclusosi il 29 giugno del 2021 – a 11 anni dai fatti (era il 25 settembre 2010 quando il cadavere carbonizzato venne rinvenuto nell’Opel Corsa bruciata nella pineta tra Pizzo e Maierato) – con l’esito favorevole per tutti i soggetti coinvolti dopo il colpo di scena riservato dal perito del giudice che aveva escluso ogni ipotesi di delitto doloso.

Assolto anche chi aveva contestazioni minori come quella di favoreggiamento personale per aver cercato di sviare le indagini fornendo false dichiarazioni ai carabinieri. Per il magistrato non si trattò di omicidio quanto, invece, di un atto suicida da parte della vittima. Circostanza da sempre avversata dal padre e dalla sorella di Colloca che si erano costituiti parte civile presentando ricorso in Appello.

Ma il processo davanti ai magistrati di Catanzaro non ha fatto altro che confermare la decisione pronunciata a suo tempo dal giudice Marina Russo, con la Corte (presidente Gabriella Reillo, a latere Domenico Commodaro e i giudici popolari) che ha dunque concordato con la linea difensiva degli avvocati Pietro Chiappalone e Guido Contestabile (ieri sostituito dal collega Pietro Antonio Corsaro), legali di fiducia di madre e figlio nei confronti dei quali la parte civile, in questo caso il solo padre di Colloca (avv. Diego Brancia), aveva, come detto, impugnato la sentenza di primo grado ma solo ai fini del risarcimento civile. La Corte ha depositato nei giorni scorsi le motivazioni del verdetto.

Il suicidio. La Corte evidenzia che le valutazioni medico-legali, operate dapprima dalla consulente Bisogni, e successivamente dal perito Tartisano, in ordine alla sussistenza di elementi che depongono in modo univoco per il suicidio “non risultano inficiate dalle considerazioni effettuate dalla dott.ssa Simona Costanzo”, psicologo clinico, psicoanalista e psicografoanalista, che nel tracciare il profilo sociologico di Nicola Colloca sulla base degli scritti personali di questi, ha diagnosticato un “disturbo ossessivo-compulsivo di tipo chiaramente nevrotico” che non prevede quasi mai l’esecuzione di un atto autolesivo, ma addirittura è il disturbo psichico che, tra tutti gli altri, appare meno attinente a tale comportamento”.

Infatti, a parere dei giudici si tratta di una diagnosi “generica, fondata solo sull’esame di scritti personali – una sorta di diario – e in assenza, e non poteva essere altrimenti, dei colloqui clinici e della somministrazione dei test sui quali, alla stregua delle cognizioni scientifiche in materia nell’attuale momento storico, si fonda la diagnosi di malattie psichiche e/o psicologiche. Non è stato indagato neanche il tipo di disturbo compulsivo – rileva ancora la Corte – né sono state indicate le ragioni per le quali tale disturbo non fosse compatibile con il suicidio, laddove, viceversa, i familiari dell’infermiere hanno affermato che questi era un soggetto tendente alla depressione, che usava un potente ansiolitico come il Tavor, e negli scritti in questione emerge tale propensione, atteso che vi sono molte considerazioni pessimistiche ed ultimative sulla vita e sul futuro”.

Ritenuto, poi di “scarsa valenza scientifica” la considerazione, fatta sempre dalla Costanzo, che il suicidio sarebbe da escludere in quanto incompatibile con il lungo lasso temporale trascorso in pineta da Colloca, atteso che il suicidio “avviene sempre in lassi di tempo molto minore perché il soggetto che giunge alla determinazione di uccidersi generalmente non lo fa quando è portato a pensare e a ripensare quello che sta facendo”. Anche in questo caso si tratta di “una valutazione empirica e non correlata al caso concreto, essendo altrettanto evidente che a fronte dello “slancio suicida” nella generalità dei casi, vi sono altri casi di suicidi programmati nei minimi dettagli e nei quali la volontà autosoppressiva permane per un lasso di tempo considerevole”.

Al tempo stesso, viene evidenziato l’assenza di esplicitazione di alcuna ragione per la quale debba “escludersi che la condotta di Colloca potesse rientrare in questo ultimo caso, visto che egli si è procurato il cloroformio, data la sua professione di infermiere, ha portato con sé gli ansiolitici – il figlio ha riferito, il giorno del ritrovamento del corpo, che aveva notato l’assenza di tali farmaci in casa, tanto da pensare che il padre ne avesse abusato e si fosse addormentato in macchina – e si è procurato il liquido infiammabile con il quale ha dato fuoco alla propria autovettura e a sé stesso”.

Anche le conclusioni del consulente della Procura, Arcudi, non si sono rivelate  sufficienti a revocare in dubbio le conclusioni di Tarsitano in quanto, quest’ultimo ha fornito una “descrizione precisa, supportata da dati scientifici, delle rime di frattura rinvenute nel cranio di Colloca, dopo la combustione”. Valutazioni, queste, ritenute “in linea con quanto affermato dalla Bisogni” in esito all’autopsia eseguita nell’immediatezza sul cadavere della vittima, e con le altre risultanze emerse agli accertamenti tecnici.

Le conclusioni. E così, per la Corte, il primo giudice ha ritenuto corretta la prevalenza degli accertamenti e delle valutazioni peritali e pertanto “non si ha ragione di discostarsi da tali valutazioni, risultando le stesse condotte in applicazione dei canoni scientifici raggiunti nella materia medico-legale, nell’attuale epoca storica. Pertanto, si ritiene non sussistano i presupposti per l’accoglimento della richiesta dell’appellante di rinnovazione della perizia nel presente grado di giudizio”. E dunque, l’insieme degli elementi “non è idoneo a provare una ricostruzione dei fatti coerente ed univoca in senso accusatorio nei confronti degli imputati”.

I rapporti con moglie e figlio. La circostanza che non ci sia precisione nell’indicazione degli orari in cui la Gentile, prima, e Nicola Colloca, dopo, fossero usciti da casa, da parte della stessa donna e del figlio, è plausibilmente attribuibile, secondo i giudici, al fatto che gli stessi non “avessero guardato l’orologio ed abbiano fatto riferimento ad orari indicativi, che comunque sono compatibili con quello di partenza dell’autovettura dell’infermiere, rilevato dal GPS (ore 17,50)”.

La Corte ricorda poi che “è stata la stessa donna a riferire subito agli inquirenti della sua relazione extraconiugale rimasta sconosciuta a tutti, compresi i familiari e gli amici degli stessi” ed evidenzia che sia la stessa che il figlio hanno riferito dei “problemi relazionali che avevano con Nicola Colloca a causa della sua distanza e della sua avarizia nonché della circostanza che questi avesse messo da parte una consistente somma in banca, costringendo il nucleo familiare a condurre una vita economicamente disagiata”. Ha poi trovato “plausibile spiegazione” il comportamento della Gentile di “mancata immediata denuncia della scomparsa del marito e di “copertura” di questi rispetto ai colleghi di lavoro, nel fatto che la donna pensasse che il coniuge stesse ritardando il rientro a casa pei creare ansia nei familiari ed ottenere il perdono per il suo tradimento nonché per preservarlo da conseguenze negative sul luogo di lavoro”.  

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