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Depositate a 19 mesi dalla sentenza le motivazioni del processo d’appello di “Nemea” contro il clan Soriano di Pizzinni di Filandari. «Riconosciuto il vincolo associativo mafioso»


VIBO VALENTIA – Dopo  quasi 19 mesi la Corte d’Appello presieduta da Loredana De Franco ha depositato le motivazioni del processo “Nemea” contro il clan Soriano di Pizzinni di Filandari. La sentenza era stata emessa il 19 ottobre del 2022 con questo esito per gli imputati accusati, a vario titolo, di estorsione, danneggiamento, detenzione di armi e munizioni, detenzione di droga ai fini di spaccio. Reati con l’aggravante delle modalità mafiose. 

LA SENTENZA

Condanne per Rosetta Lopreiato, moglie del presunto boss Leone Soriano, a 3 anni e 4 mesi e 6.000 euro di multa con interdizione dai pubblici uffici per la durata di 5 anni (in primo grado era stata assolta); per i coniugi Luca Ciconte e Caterina Soriano, con esclusione della circostanza aggravante mafiosa 416 bis e di altre, e riconosciuto il vincolo della continuazione tra i reati in contestazione, nei confronti dei quali la pena è stata rideterminata rispetto al primo grado: 13 anni e 5 mesi per il marito, 13 anni e 7 mesi per la moglie. Altra condanna aveva interessato Giacomo Cichello con pena rideterminata in 5 anni e 6 mesi di reclusione.

Rideterminazione anche per Giuseppe Soriano, con esclusione di una serie di aggravanti e riconoscimento del vincolo della continuazione: per lui 17 anni e 6 mesi. Stesse considerazioni per Francesco Parrotta ma condanna lievemente inferiore (14 anni e 11 mesi di reclusione) e per Leone Soriano la cui pena è stata di 20 anni di reclusione. Ridotta infine quella inflitta a Graziella Silipigni in virtù anche dell’esclusione di una serie di aggravanti: 11 anni e 8 mesi di reclusione. Assoluzioni, poi, confermate per Giuseppe Guerrera, Domenico Nazionale, Luciano Marino Artusa, e Alex Prestanicola. Già assolti in primo grado Maria Grazia Soriano e Domenico Soriano.
Il collegio di difesa era costituito dagli avvocati Pamela Tassone, Francesco Schimio, Diego Brancia, Sergio Rotundo, Daniela Garisto, Giuseppe Di Renzo e Giovanni Vecchio.

IL VINCOLO ASSOCIATIVO

Ampio spazio, tra le 129 pagine delle motivazioni, viene dedicato alla contestazione associativa. Il Tribunale di Vibo Valentia aveva condannato Leone Soriano, la Silipigni,  Giuseppe Soriano e Francesco Parrotta, mentre aveva assolto i coniugi Luca Ciconte e Caterina Soriano, figlia di Leone. Contro la pronuncia assolutoria il pm della Dda aveva proposto appello. Per Leone e Giuseppe Soriano,  Parrotta e la Silipigni la contestazione è a far data dal 28 maggio 2014, epoca successiva al segmento temporale dopo il processo Ragno, mentre per Caterina Soriano e Ciconte la contestazione è a partire dal settembre 2017.

I PENTITI

Nel corso del processo d’appello sono stati risentiti i collaboratori di giustizia Andrea Mantella, Angiolino Servello, Michele Iannello, Raffaele Moscato, Bartolomeo Arena ed Emanuele Mancuso delle cui testimonianze la Corte, come vedremo, ha tenuto debitamente conto. Scrive la Corte al riguardo: «Le dichiarazioni rese dai collaboratori cli giustizia, in ordine all’attendibilità delle quali la difesa peraltro non ha mosso alcuna censura, consentono di affermare l’esistenza e l’operatività della cosca Soriano nel territorio di Filandari e zone limitrofe nel periodo in esame, con le specificazioni temporali sopra indicate in relazione ai singoli imputati e tenuto conto del segmento temporale oggetto della contestazione associativa nel processo “Ragno”».

Tali dichiarazioni consentono di individuare «l’esistenza e gli ambiti di operatività della cosca Soriano, capeggiata ad oggi da Leone Soriano, operante nel settore del traffico di sostanze stupefacenti, armi ed estorsioni che rappresenta l’evoluzione del gruppo Soriano, riconducibile, tra gli altri, comunque allo stesso Leone, già esistente ed operante nel territorio di Filandari, sebbene non in forma organizzata come richiesto dall’art. 416 bis fin dai primi anni ’90» e la sua «permanenza in vita in un ampio arco temporale a partire, in questa sede, dall’anno 2014».

Sempre nella sentenza si evidenzia inoltre che «il compendio probatorio ha delineato l’esistenza in Filandari e territori limitrofi di una compagine, a carattere prevalentemente familiare, capeggiata da Leone Soriano, fortemente impegnata nello svolgimento di attività illecite tese a garantirsi, e riaffermare il controllo del territorio al fine di commettere una serie indeterminata di delitti, in particolare contro il patrimonio, attraverso l’assoggettamento degli imprenditori locali vittime di ripetute azioni intimidatorie, poste in essere  nonostante il serrato controllo esercitato dai Carabinieri su alcuni appartenenti alla compagine, e finalizzate non soltanto al raggiungimento dell’obiettivo estorsivo ma anche a rendere più che mai conoscibile dalla popolazione della zona il potere mafioso del clan Soriano».

Pertanto, il reato associativo di stampo mafioso è stato riconosciuto «in tutti i suoi elementi necessari ed essenziali, risultando evidente tanto la forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo, quanto la condizione di assoggettamento ed omertà da essa generata e che scaturisce non soltanto dalle eclatanti azioni commesse ai danni degli imprenditori locali (incendi, danneggiamenti, esplosioni di colpi di arma da fuoco. esplosioni di bombe) e manifestamente nei confronti delle forze dell’ordine (incendio dell’autovettura di un carabiniere della Stazione di Filandari. progetto di attentato alla caserma dei Carabinieri di quel comune, minacce nei confronti degli ufficiali dei Carabinieri impegnati nelle attività di indagine, quale il colonnello Valerio Palmieri) ma anche dalla fama criminale dell’associazione e dei suoi componenti».

LEONE SORIANO AL VERTICE

Ritenuto «indubbio» il ruolo apicale di Leone Soriano che «ha preso le redini del clan dopo l’omicidio del fratello Roberto» ed è colui che «detta le strategie del gruppo gestendo il narcotraffico, anche in collegamento con altri clan, e pianificando estorsioni a tappeto nei confronti di imprenditori e commercianti operanti nella zona di sua competenza per riaffermare il suo potere all’indomani della scarcerazione ed attuare le sue mire espansionistiche, anche in contrapposizione con altri sodalizi».

Strategie «estremamente aggressive che si pongono io continuità con quelle attuate anche nel precedente periodo di detenzione nel corso del quale ha esercitato comunque la sua forza intimidatoria inviando lettere minatorie preannuncianti azioni ritorsive non solo all’imprenditore Nino Castagna ma anche al maresciallo dei carabinieri, Salvatore Todaro che considerava responsabile della sua detenzione». Leone non avrebbe inoltre nascosto i propositi omicidiari nei confronti del boss di Zungri, Peppone Accorinti, che «riteneva essere l’autore dell’omicidio del fratello Roberto», e l’atteggiamento di «aperta sfida nei confronti dei Carabinieri che non ha esitato a minacciare, prima attraverso le missive inviate dal carcere e poi personalmente, e nei confronti dei quali ha pianificato attentati».

GIUSEPPE SORIANO

Sul suo conto, in qualità di partecipe, rilevano le «convergenti dichiarazioni dei collaboratori Arena e Mancuso, la precedente condanna per estorsione e gli esiti inequivocabili delle intercettazioni sull’estorsione all’imprenditore Castagna che corroborano il narrato di Mancuso, dalle quali emerge il pieno coinvolgimento dell’appellante  nel fatto e nella detenzione  della bomba che avrebbe dovuto essere utilizzata nell’attentato nonché alla partecipazione allo stesso».

FRANCESCO PARROTTA

Sulla sua posizione la Corte rileva che, se «è pur vero che è stato assolto dalla fattispecie associativa nel processo “Ragno”, tuttavia le conversazioni intercettate, in particolare quelle con lo spyware installato proprio nel proprio dispositivo, offrono dati univocamente indicativi della sua appartenenza al clan, dalle quali emergono il suo ruolo di piano, quale uomo di fiducia di Leone Soriano, e il pieno coinvolgimento alle estorsioni a Castagna, Davide Contartese e Romano Pasqua nonché nella organizzazione e predisposizione di tutto quanto necessario per l’attentato alla caserma dei Carabinieri di Filandari». Dunque, nel quadro probatorio delineato a carico dell’imputato, sono «individuabili  indicatori fattuali dai quali può logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa».

GRAZIELLA SILIPIGNI

Anche nei confronti dell’imputata, nel giudizio di primo grado sono stati acquisiti elementi sulla base dei quali deve «ritenersi la stabile compenetrazione dell’appellante nel tessuto organizzativo del sodalizio; la commissione di reati-fine in materia di armi e stupefacenti, la detenzione e custodia comune delle armi e dello stupefacente del gruppo, i rapporti con gli altri componenti il nucleo familiare di Soriano ed anche con altri affiliati, in particolare con Parrotta», sono per la Corte tutti elementi dai quali «inferire la dimostrazione della costante permanenza del vincolo e l’apprezzabile concreto contributo all’esistenza ed al rafforzamento dell’associazione».

LUCA CICONTE

Sul suo conto rilevano le dichiarazioni del pentito Arena il quale, pur «non essendo io grado di riferire di una formale affiliazione dell’imputato al clan Soriano e del possesso di specifiche doti, ha dichiarato di ritenere, sulla base di comportamenti. specifici dello stesso, che egli fosse membro del clan», specificando che questi era impiegato «nell’alterazione delle armi a salve» e che «trafficava stupefacenti»; dichiarazioni che hanno trovato «plurimi elementi di riscontro, comunque autonomamente apprezzabili, nel materiale probatorio in atti, in particolare nelle intercettazioni dalle quali è emerso il pieno coinvolgimento del Ciconte in fatti delittuosi rientranti nel programma associativo del gruppo e per i quali ha riportato condanna nel presente processo» quali «la detenzione delle armi del clan che si interessava di occultare, così come degli esplosivi, dei quali disponeva direttamente, l’estorsione a Contartese, titolare del bar “La perla nera” e ad altri e nella detenzione di droga».

CATERINA SORIANO

Infine, per la moglie di Ciconte e figlia di Leone, la sua compartecipazione alla costa è stata «acclarata nella detenzione delle armi del clan che si interessava di occultare, nella detenzione e nell’occultamento delle sostanze stupefacenti del gruppo, nell’associazione finalizzata al traffico di droga, nell’estorsione a Contartese presso la cui attività si era recata col marito per riscuotere le somme che la vittima doveva versare al clan».

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