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Il regista Alessandro Grande

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In attesa di vederlo presto in sala, approda su Sky Primafila Regina, film d’esordio del regista Alessandro Grande, prodotto da Bianca Film con Rai Cinema. Protagonisti Francesco Montanari, nei panni inediti di un padre affettuoso (Luigi), e la giovane Ginevra Francesconi, che interpreta Regina, adolescente orfana di madre, con il grande sogno di fare la cantante. Una storia ambientata in una Calabria nuova, lontana dagli stereotipi, in cui la Sila fa da sfondo restituendo al film un fascino nordeuropeo, un’ambientazione altra, in un racconto che indaga sul conflitto generazionale.

Dopo il successo del cortometraggio Bismillah, premiato con un David di Donatello, il suo primo lungometraggio approda alla 38a edizione del Torino Film Festival come l’unico italiano in concorso, un successo a priori. Poi è arrivata la pandemia, come ha vissuto la chiusura delle sale in concomitanza all’uscita del suo primo film?

«Il lockdown è arrivato nel momento in cui abbiamo terminato le riprese. Poi abbiamo ricominciato a lavorare e siamo riusciti a finire il film. Sapere di essere in concorso a Torino è stata per noi una boccata d’aria. Abbiamo pianificato tutto un po’ in funzione di quello, il film doveva uscire in sala in tutta Italia il giorno dopo la première di Torino. Ma ad un mese dalla proiezione l’ultimo Dpcm ha bloccato nuovamente tutto. Il Festival si è svolto in streaming e solo adesso Regina potrà finalmente essere visto da tutti con un’apertura alle sale cinematografiche nelle prossime settimane».

Regina è una storia ambientata in una Calabria, che si tiene lontana dagli stereotipi legati a questa terra. Anche la location è insolita: la montagna.

«L’idea era di raccontare una storia vicina a quello che è stato il mio percorso di vita. Era fondamentale trovare un’ambientazione che fosse coerente con il percorso drammaturgico del film. La montagna diventa anche metafora della loro vita: il freddo aumenta nel corso del film con l’aumentare del conflitto tra i due personaggi».

Parlava prima di percorso drammaturgico: ha dichiarato di esser stato ispirato dal saggio di Massimo Recalcati “Il complesso di Telemaco”, e nel film sembra costruirne quasi una sorta di metafora.

«Un po’ come ho fatto con Bismillah, anche qui volevo trattare una tematica impegnativa da un punto di vista nuovo: raccontare un rapporto padre-figlia e qualcosa che potesse rovinare questa relazione. Insieme allo sceneggiatore, Mariano Di Nardo, ci siamo resi conto che il nostro pensiero era affine a quello di Recalcati. Oggi più che mai c’è bisogno di assumersi le responsabilità di essere un genitore e non un amico, trasmettere dei valori, un’educazione ai propri figli. Come diceva lei, il legame che accomuna Recalcati al film è più metaforico che drammaturgico e narrativo. Ci è servito per entrare nella sfera psicologica dei personaggi».

Recalcati ne fa una questione sociale, parla dell’assenza di padri politici, letterari…

«È così, assolutamente. È una tematica che non conosce tempo. Parliamo di Telemaco e di Regina, due generazioni lontane anni luce, ma l’aspetto sociale è talmente forte che diventa universale. Telemaco aspettava sulle rive del fiume il padre Ulisse per portare l’autorità in casa, fa lo stesso Regina che aspetta suo padre per avere una guida e poter crescere».

Il film viene raccontato dal punto di vista di un’adolescente per trattare un tema delicato come il rapporto padre-figlia. Tra l’altro lei non è ancora padre.

«Né io e né Francesco Montanari. Il personaggio di Luigi è stato raccontato in questo modo forse proprio per questo motivo: lui non doveva essere padre, lo diventa alla fine. Il fatto di non essere padri ci ha aiutati a raccontare meglio questa figura. Per quanto riguarda il punto di vista di Regina è stato più facile immedesimarsi perché parliamo di adolescenza, un’età che abbiamo vissuto tutti».

Il film è su Sky Primafila e presto anche in sala. Cosa pensa dello streaming?

«Lo streaming in situazioni di emergenza come questa può e deve essere un diffusore di arte e di cultura, non potrà e non dovrà mai sostituire l’importanza della sala, perché la sala è un’esperienza. È condivisione. Però uno non esclude l’altro, possono tranquillamente viaggiare all’unisono».


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