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Jasmine Trinca, attrice, al suo primo film da regista

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Jasmine Trinca, quarantun anni, interprete tra le più rappresentative del panorama cinematografico italiano, quest’anno ha coronato la sua ricca carriera con due significativi traguardi: è stata giurata per il Concorso all’ultimo Festival di Cannes, al fianco del presidente Vincent Lindon, e ha presentato alla kermesse francese il suo primo lungometraggio da regista. Marcel!, che vede protagonista Alba Rohrwacher, ora in sala con Vision Distribution.

Vent’anni fa Jasmine Trinca aveva esordito per la prima volta al cinema proprio al Festival di Cannes, scelta da Nanni Moretti tra migliaia di ragazze per interpretare La stanza del figlio, film che si aggiudicò la Palma d’oro.

Da allora ha calcato diversi tappeti rossi, fino al 2017 quando, di nuovo a Cannes, ha vinto come migliore attrice nella sezione “Un Certain Regard” per Fortunata di Sergio Castellitto, film che le valse anche il suo primo David di Donatello, a cui ne è seguito un secondo nel 2020 per La dea Fortuna di Ferzan Özpetek. «La mia carriera è cominciata a Cannes, avevo poco più di 18 anni, ho ricordi molto forti, avevo la mia vita davanti. Tornare per presentare un mio film e guardare il lavoro di altri autori che adoro è un privilegio, è come chiudere un cerchio», racconta.

Tratto dal suo cortometraggio Being My Mom del 2020, Marcel! è la storia del rapporto controverso e, a tratti, anche crudele tra una bambina (Maayane Conti) e sua madre (Alba Rohrwacher), performance artist di strada che mette in scena brevi spettacoli con il suo cane, ispirati alla mimica dell’attore francese Marcel Marceau. Nel film anche altre tre importanti attrici offrono preziosi camei: Giovanna Ralli, Valeria Golino e Paola Cortellesi. Intimo e crudo, dalle atmosfere bohémien e naïf, Marcel! trae spunto dalla personale esperienza di Trinca con sua madre. Il film, come lei stessa confessa, ha richiesto un certo coraggio e il giusto tempo per arrivare ad essere realizzato.

Vent’anni da attrice e ora regista, cosa l’ha spinta a questo passaggio?

«Tanti incontri, tanti esempi di attrici importanti che hanno provato a ribaltare lo sguardo sulle cose e sono diventate registe. Dopo un po’ di tempo mi sono detta che mi sarebbe piaciuto provare a guardare le cose da un altro punto di vista e provare a raccontarle agli altri».

Come è nata l’idea di questo film?

«Attraverso il cortometraggio a cui è ispirato. La sceneggiatrice Francesca Manieri ed io avevamo provato a dare forma ad anni di gioie e dolori. La trasformazione creativa del mio vissuto mi ha dato una grande spinta. Improvvisamente tutto è diventato più leggero e allo stesso tempo intenso. Il lungometraggio è diventato il prosieguo di questo viaggio iniziato con il corto».

Qual è stata la cosa più difficile?

«Abbiamo scritto il film pensando ad Alba come protagonista, non avrei mai potuto immaginare di esserne io l’interprete, perché dirigere è già abbastanza impegnativo. Per il resto solo il cane mi ha dato problemi, perché era un vero cane in tutti i sensi!».

Che tipo di madre è Alba Rohrwacher nel film?

«È una madre sghemba, ma nonostante il suo essere abitata dall’arte e dal dolore, è una madre capace di grandi messaggi e di grande amore. Al di là della vicenda autobiografica, quest’ultima era la cosa che mi interessava di più. In qualche modo è una supereroina, una donna che battaglia con la vita, che crede nell’arte nonostante tutto».

E sua madre com’era?

«Mia mamma era sicuramente una donna molto libera, molto più di me, era un’avanguardista. Non era una madre oblativa, non era particolarmente devota alla figliolanza, ma mi ha profondamente trasmesso il senso del femminile e con questo sono arrivata dove sono ora. Quindi penso che abbia fatto un buon lavoro e il film, in qualche modo, è anche un tentativo di fare pace con lei e ringraziarla».

E lei che madre pensa di essere?

«Essere madre è una gran fatica, ma è bellissimo. Le mamme perfette non esistono, siamo tutte uguali ma tutte diverse».

Marcel! si può dire che sia un film quasi tutto al femminile, ma fuori dagli stereotipi.

«Nella scrittura i personaggi femminili sono tutti dei simboli, c’è la madre, la figlia, la nonna. Il materno di questo film non è chiaramente quello paradigmatico della società in cui viviamo, ma il cinema dà la possibilità di scrivere per immagini. Le donne di questo film hanno una complessità diversa rispetto ai ruoli a loro assegnati, dalla bambina, che tanto angelica non è e ha una parte crudele molto forte, alla madre, che si prende cura della figlia in un modo inconsueto».

Come giudica questa sua opera prima?

«Tutto il film è stato curato con il cuore, attraverso lo sguardo di una bambina, che ci ha consentito di andare più lontano di quanto a volte ci consentono di andare».

Dopo questa esperienza cosa pensa della situazione attuale delle donne registe in Italia?

«Oggi si può dire che ci sia una discreta domanda da parte del mercato di donne registe. Siamo ancora un po’ indietro però. Per quanto mi riguarda, ho avuto la fortuna di fare questo film con persone non solo a me care, ma che stimo moltissimo, e siamo riuscite a farlo in poco tempo. Ma ho avuto una possibilità che credo non sia quella di tutte».

Da attrice come si è sentita a dirigere altri suoi colleghi?

«Era come se non fossi esattamente una di loro. La potenza, in tutti i sensi, di queste creature dalla forza infinita e dalla grande fragilità mi ha molto commosso. Ora che sono tornata a fare l’attrice continuo a pensare a questa cosa».


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