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La privatizzazione, con una variazione dell’assetto azionario di Poste Italiane «non cambia» il ruolo di Poste né la strada tracciata con il nuovo piano strategico al 2028, ha sostenuto l’ad di Poste Italiane, Del Fante, escludendo ricadute sull’azienda


Vale 4,4 miliardi la quota del capitale azionario di Poste Italiane detenute dal Mef (29,7%), risorse che – qualora si decidesse di collocare l’intero pacchetto sul mercato – sarebbero destinate alla riduzione del debito pubblico italiano, insieme a quelle attese dal piano di dismissione degli asset detenuti dallo Stato, annunciato nella Nadef, che nell’arco di un triennio (2024-2026) dovrebbe assicurare un introito di circa 20 miliardi (un punto di Pil) da destinare all’abbattimento del rapporto debito/Pil, portandolo al di sotto del 140%.

Attualmente lo Stato detiene il 64% del capitale sociale di Poste Italiane: il 29,7% fa capo direttamente al Mef, il 35% a Cdp di cui il ministero di via XX Settembre è azionista di maggioranza. Nelle prime fasi del processo di privatizzazione lo Stato potrebbe fermarsi al 51%, per poi scendere progressivamente, fino alla quota limite del 35%. Resta esclusa la possibilità della cessione del controllo pubblico sulla società, “che continuerà ad essere esercitato dallo Stato”, come su tutte le altre interessate dal piano di dismissioni – fa eccezione Monte dei Paschi di Siena, “sul quale esiste un impegno nei confronti della Commissione Europea alla dismissione del controllo da parte dello Stato” -.

PRIVATIZZAZIONE POSTE, “SARÀ REALIZZATA NEL MOMENTO PIÙ ADEGUATO”

L’operazione, poi, sarà realizzata “nel momento più adeguato alla massimizzazione dell’introito realizzabile, cercando di conciliare le condizioni di mercato con le esigenze di finanza pubblica”. Non ci sarà “nessuna svendita”, dunque. Il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, è tornato a delineare il perimetro della nuova tranche della privatizzazione di Poste (la prima è targata 2015, ndr) intervenendo di fronte alle Commissioni Bilancio e Trasporti di Camera e Senato, nell’ambito del ciclo di audizioni sul Dpcm approvato in Consiglio dei ministri lo scorso 25 gennaio che di fatto ha avviato la procedura.

L’operazione di dismissione di Poste, ora sotto il faro del Parlamento, ha spiegato il ministro, “deve esser considerata una cornice che individua un valore minimo della partecipazione dello Stato, che potrà essere raggiunto progressivamente e in più fasi, in modo da salvaguardare il controllo pubblico strategico pubblico su questo asset”. “Il controllore dall’azienda rimane lo Stato”, gli ha fatto idealmente eco l’amministratore delegato di Poste Italiane, Matteo Del Fante, intervenuto in audizione di fronte alla Commissione Comunicazioni al Senato.

“Lo statuto è quello: dei 9 consiglieri, 6 consiglieri vengono nominati dallo Stato, chiaramente c’è il tema su quei 6, se ci metti 6 persone giuste o no, ma questo vale sia che lo Stato sia proprietario del 90, del 70 o del 50%”, ha affermato, escludendo ricadute sull’azienda in seguito alla cessione di ulteriori quote azionarie, rispondendo a una domanda in particolare sul rischio di chiusura di uffici postali o di condizionamenti nella politica per le acquisizioni.

LA RASSICURAZIONI DELL’AMMINISTRATORE DELEGATO DI POSTE MATTEO DEL FANTE

A dimostrazione di quanto detto, Del Fante ha portato tre esempi. Nel Regno Unito, la proprietà dell’azienda postale non è del governo inglese: “Hanno venduto tutto, ma se chiediamo agli inglesi di chi è Royal Mail la risposta è dello Stato” poiché Royal Mail gestiste il servizio universale. In Francia il gruppo postale è “al 100% dello Stato, non è quotato, sono più o meno come noi, forse un po’ meno bravi e dinamici” e “nel 2016 si sono comprati Bartolini, ce la siamo fatti portar via sotto il naso ed è il nostro primo concorrente”. I tedeschi “sono i più simili, il governo ha una percentuale, è un’azienda che è sul mercato, ha obblighi di servizio universale concordati col governo”.

Giorgetti ha fatto poi il punto sul profilo finanziario dell’intervento, evidenziando che i dividendi “legati” alla quota potenzialmente oggetto di cessione nel 2023 sono stati pari a 259 milioni, considerati in crescita nel 2024 nel piano industriale presentato dalla società il 20 marzo. “La valutazione complessiva dell’operazione – ha spiegato – deve tenere conto sia del fatto che le risorse ottenibili dalla dismissione si concretizzeranno in una riduzione del debito pubblico che, a sua volta, consentirà di ottenere un risparmio in termini di spesa per interessi passivi pari a circa 200 milioni annui; ma anche degli effetti positivi sulle performance aziendali connesse a tali operazioni”.

«LA PRESENZA DELLO STATO È UN ASPETTO POSITIVO»

In primis sul titolo, ha sostenuto, evidenziando i risultati in termine di miglioramento della performance delle operazioni che hanno interessato Eni, Enel. Anche Poste, ha ricordato rispondendo alle domande dei parlamentari, “è migliorata” con l’Ipo (Initial Public Offering), rispetto a “quando era emanazione di un ministero”. “Noi riteniamo che la presenza dello Stato che assicuri il controllo sia un aspetto positivo. Le società possono operare in condizioni di mercato, se lo fanno è un bene per tutti, in termini di efficienza e di offerta da parte di queste società”, ha ribadito il ministro rispondendo alle critiche dei parlamentati dell’opposizione, bollando poi come “scorretto” l’uso del termine “svendita”. “Parliamo di vendita, quella si potrà valutare a posteriori in base a modalità e condizioni in cui verrà fatta”.

Il confronto tra mancati dividendi e minori interessi passivi di fatto “configura un trade off negativo” pari a poco meno di 100 milioni annui. Ma, ha rilevato, vanno considerate le ricadute positive dell’operazione “in termini di incremento del valore di mercato della società e, di conseguenza sull’utilità della residua partecipazione in mano pubblica”. In particolare, ha detto, l’operazione “consentirà di accrescere ulteriormente il flottante, ampliando la compagine azionaria anche a nuovi investitori qualificati così da realizzare un prevedibile rafforzamento del titolo e un conseguente beneficio per lo Stato”. Senza contare “gli effetti dell’operazione sulla fiducia degli investitori istituzionali nazionali ed esteri verso l’Italia, che potrebbero risultare in un miglioramento dell’appetibilità del debito pubblico, con conseguenti effetti positivi in termini di riduzione dello spread e del costo del debito”.

GIORGETTI VA OLTRE LA PRIVATIZZAZIONE DI POSTE: «RISPARMIO DA INTERESSI PASSIVI SUL DEBITO MAGGIORE DELLA PERDITA DI DIVIDENDI»

Il ministro ha, quindi, “suggerito” una valutazione più complessiva dell’operazione di dismissioni ipotizzato nella Nadef che “consentirà di conseguire un risparmio di interessi passivi sul debito superiore alla perdita di dividendi percepiti relativamente alle quote di cessione previste”.
Alle rassicurazioni sul mantenimento del controllo pubblico, “blindato” anche da una serie di norme – da quella prevista dallo Statuto di Poste che esclude la possibilità per un soggetto diverso dal Mef, enti pubblici o da questi controllati, fino alla disciplina dei poteri speciali che consente al governo di porre il veto su eventuali tentativi di scalata della società o dei suoi asset strategici – Giorgetti ha accompagnato garanzie sulla salvaguardia dell’occupazione. Considerando comunque che il piano industriale illustrato la scorsa settimana dalla società “non contempla alcun impatto negativo in termini di effetti sull’occupazione”.

Ed anche l’impegno a rispondere ai rilievi dell’Antitrust sulla vendita a Poste Italiane di Pago Pa: “Non c’è nessuna volontà strumentale di fare una specie di aggiotaggio di Borsa per valorizzare ulteriormente Poste ai fini del collocamento sul mercato e relativa vendita della quota – ha detto rispondendo alle critiche delle opposizioni -. Noi intendiamo andare avanti con l’operazione, le valutazioni dell’Antitrust le abbiamo lette, le stiamo valutando e cercheremo dare risposta, ma riteniamo che quella sia un’operazione di razionalizzazione di sistema”.


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