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Giorgia Meloni e Sergio Mattarella durante i funerali del Papa emerito Benedetto XVI

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Il Papa della parola, Benedetto XVI, ha provato a portarli con sé questi apparati sposando un po’ delle loro idee, ma quando ha capito che la materia che maneggiava non era conservatorismo ma immondizia, si è tirato indietro. Ha scoperto di non avere le forze per contrastarla e rimuoverla. Oggi la prima donna premier italiana deve riportare il sistema di governo che è necessariamente burocratico a una cosa che non sia il regno della fazione. Si sbarazzi senza compromessi di corrotti e incapaci, ma tuteli gli uomini che garantiscono la protezione europea e permettono di attuare il disegno di un conservatorismo moderno. Penso prima di tutti al Ragioniere generale dello Stato, Biagio Mazzotta, che è stimato in casa e fuori. Perché, anche se al posto di figure preziose come questa ne metti un’altra di ugual valore tecnico, ammesso che la si trovi, è un danno comunque. Si va a sbattere contro lo stesso muro su cui si è infranto il Papa della parola.

Un grande innovatore che ha avuto paura ed è diventato un grande conservatore. Questo è Papa Benedetto XVI. Il profeta della parola. Il teologo, Joseph Ratzinger, che diventa il primo dei pastori della Chiesa cattolica e parla di Dio da innamorato, scuote le coscienze perché ripete che il padreterno e l’uomo vengono prima di tutto, anticipa la crisi di valori dell’Europa, disturba gli apparati perché la gioia della fede e della catechesi non si conciliano con le pratiche del malaffare. Si colloca in mezzo tra l’energia, la potenza e il sorriso ammaliatore di Papa Giovanni Paolo II e la forza profonda dell’uomo “che viene dall’altro mondo” che è Papa Francesco che è, a sua volta, il frutto di quelle dimissioni di Benedetto che rappresentano l’atto del suo magistero che fa la storia. È successo a lui quello che spesso capita a chi ha una grande responsabilità e ha paura che il cambiamento distrugga l’istituzione di cui ha la responsabilità.

Non ce l’ha fatta Benedetto a governare gli apparati. Era arrivato al soglio pontificio attraverso il compromesso con l’ala martiniana che confidava nel teologo innovatore del Concilio e lo aveva eletto affinché andasse avanti su un progresso moderato. Sapevano tutti che avrebbe cozzato contro una serie di apparati e così è stato. Prima Benedetto ha provato a portarli con sé questi apparati sposando un po’ delle loro idee e poi dopo, capendo che questo processo lo stava portando all’inferno e che la materia che maneggiava non era conservatorismo ma immondizia, si è tirato indietro. Ha scoperto di non avere le forze per contrastarla e rimuoverla. Ha fatto il gesto più rivoluzionario della storia papale, quello che nessuno aveva mai fatto prima, si è dimesso.

Ha lasciato Benedetto in eredità a Francesco un metodo processuale che ha consentito al suo successore di aprire nuovi orizzonti senza chiuderli. Per dare risposte a problemi di fondo non più eludibili che richiedono sintesi nuove. Penso al tema della libertà che si incrocia con la struttura laica della ricerca scientifica come nuova religione togliendo la libertà di decidere fino a che punto può arrivare la scienza. Penso alla ricerca di Dio che implica il dialogo con gli altri cristianesimi e con le altre religioni avendo un occhio di riguardo per l’ebraismo, prendendo atto del discorso ecumenico distrutto dall’ortodossia supìna a Putin, le molte facce e le molte contraddizioni dell’Islam e come fare a dialogare sempre e comunque. Penso al tema aperto della convivenza con tutto ciò e a quello parallelo della riforma della Chiesa che è cruciale. Un pezzo di strada lo ha fatto Francesco, un altro pezzetto lo farà ancora sempre lui, ma il processo è lungo e serviranno ogni giorno nuove sintesi che sicuramente riguarderanno anche un nuovo Papato.

Quello, però, che ci preme qui più di tutto sottolineare è che c’è una lezione di mancato governo degli apparati da parte di Benedetto che è di straordinaria attualità per la politica interna italiana di oggi e per il successo di un conservatorismo moderno come espressione compiuta della stagione che vede al governo la nuova Destra guidata da Giorgia Meloni. Riguarda la questione decisiva di come riportare il sistema di governo che è necessariamente burocratico a una cosa che non sia il regno della fazione e tutelare gli uomini che garantiscono la protezione europea e permettono di attuare il disegno rivoluzionario per l’Italia di un conservatorismo moderno.

Dobbiamo prendere atto che siamo in un’Europa dove la Bce non acquista più ma vende e non dobbiamo consentire che ci si domandi in Europa perché si è mandato via questo o quello che vanno molto bene e svolgono un ruolo silenzioso ma efficace di protezione internazionale dell’interesse generale del Paese. Penso prima di tutti al Ragioniere generale dello Stato, Biagio Mazzotta, che è stimato in casa e fuori. Perché deve essere chiaro che anche se al posto di figure preziose come questa ne metti un’altra di ugual valore tecnico, ammesso che la si trovi, è un danno comunque. Si va a sbattere inevitabilmente contro un muro perché si dà il segnale sbagliato. Appena cambia il vento dei mercati quel segnale sbagliato si paga. Questo è il muro contro cui è andato a sbattere il magistero conservatore di Ratzinger che aveva contro un immondezzaio, non uomini che lo proteggevano ed è lo stesso muro contro cui in una situazione completamente opposta non deve andare a sbattere la nuova Italia di Giorgia Meloni. Che ha il sacrosanto diritto di sbarazzarsi di chi non sa fare e dei mandarini della rendita, ma non di chi può aiutare tecnicamente a conseguire i risultati realizzando il cambiamento.

Anche la storia, come sempre, ci aiuta a capire. Non è bastato abbattere il muro di Berlino perché era già caduto, ma non erano caduti quelli che lo avevano costruito. È assolutamente vero tutto ciò e lo si capisce bene oggi come dimostra proprio la vicenda di Putin che era lì, negli uffici del Kgb della Germania orientale, quando quel muro cadeva. Questa dei cambiamenti strutturali di un Paese, come è avvenuto con il governo di unità nazionale guidato da Draghi, e come è necessario che accada in particolare nell’attuazione di un conservatorismo moderno in Italia nel segno della credibilità internazionale, è una battaglia lenta, lunga, tipica di tutte le fasi di transizioni.

Chi non capisce questo è destinato a ripetere gli errori di quelli che sono venuti prima. Il problema strategico italiano e europeo, perché stanno insieme e guai a scinderli, non è prendere la questione da destra o da sinistra ma prenderla di petto. Assistiamo in questi giorni alla caduta degli dei, da Apple a Amazon, come ci spiega da par suo Patrizio Bianchi, ma sappiamo che l’America avrà la sua nuova Silicon Valley e si sta già riorganizzando. Noi come italiani molto più degli spagnoli diamo la sensazione di volerci muovere in Europa, come peraltro fanno su un piano diverso anche francesi e tedeschi, allo stesso modo di tanti piccoli pesci che cercano di mordersi l’un l’altro salvo scoprire poi di qui a qualche anno di essere tutti finiti nella pancia della balena americana o cinese. Aprire e fidarsi dei migliori e tutelare la protezione europea legata a queste figure è decisivo per il governo Meloni. Si tratta di procedere per obiettivi, non per spartizioni. Perché le spartizioni danno qualche rendita effimera, ma non consentono di raggiungere gli obiettivi.


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