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Mario Draghi e Joe Biden. Sullo sfondo Boris Johnson, Emmanuel Macron e Recep Tayyip Erdoğan

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Il 24 febbraio 2022 entrerà nei futuri manuali di storia internazionale come una data cardine del lungo trentennio successivo alla fine del mondo bipolare, a sua volta eredità della novecentesca “Guerra dei trent’anni”. C’è da domandarsi se anche il 24 marzo 2022, un mese esatto dopo la brutale aggressione russa all’Ucraina, sarà ricordato come simbolo di un rinnovato, e sicuramente mai così saldo nel XXI secolo, rapporto euro-atlantico.

A costo di risultare cinici occorre sgomberare il campo su un punto: l’autocrate del Cremlino sta infliggendo dolori sempre più lancinanti al popolo ucraino, ma allo stesso tempo ha offerto una scossa di adrenalina vitale a un occidente euro-atlantico che, a ragione, il presidente Emmanuel Macron non aveva esitato a esemplificare nell’immagine di «una Nato in stato di morte cerebrale» circa due anni e mezzo fa.

PUNTO DI NON RITORNO

Se questo è lo sfondo, la potenzialmente storica giornata di Biden a Bruxelles, prima al vertice Nato, poi a quello del G7 e in serata al Consiglio europeo (che proseguirà oggi) pare aver confermato la tenuta del nuovo asse atlantico. A un Zelensky che invoca l’1% dei 20mila tank della Nato, il segretario generale Stoltenberg ribadisce l’invio di missili, droni armati e anche batterie per colpire la flotta russa nel Mar Nero. E in conclusione, dopo aver lanciato un monito di fronte al rischio di utilizzo di armi chimiche e nucleari da parte di Mosca, Biden apre all’ipotesi di forniture di sistemi di difesa aerea a Kiev.

Ebbene, nonostante l’importanza di queste conferme e rilanci da parte dell’Alleanza atlantica, che sino a qualche settimana fa avremmo faticato a ipotizzare, ci si permetta di avanzare un surplus di riflessione. In realtà la situazione sembra essere giunta a un punto di non ritorno, o meglio sembra indispensabile, da parte occidentale, un nuovo salto di qualità. E questo su due direttrici ben precise, che coinvolgono direttamente le istituzioni europee, ma più ancora le cancellerie dei principali Paesi membri.

In definitiva a Bruxelles tra il 24 e il 25 marzo si aggirano due convitati di pietra. Il primo di questi risponde al nome di forniture di gas e petrolio (molto più il primo rispetto al secondo) dalla Russia verso l’Europa occidentale (Germania, Italia, Olanda, Francia, Spagna in primis).

Al netto di qualsiasi accenno polemico, è fuor di dubbio che la guerra brutale che Putin conduce contro l’Ucraina è in larga parte finanziata dagli introiti provenienti dai circa 800 milioni di euro al giorno che l’Europa paga per il gas (il volume del 2020 parla di 260 miliardi, appunto, in un anno). Se a questo si aggiunge lo sforzo europeo per fornire armi, materiali e aiuti umanitari l’Ucraina, il conflitto russo-ucraino grava, paradossalmente, in larga parte sulle spalle del contribuente europeo.

STOP ALLA DIPENDENZA

Sarebbe scorretto affermare che la Ue e i principali Paesi membri non abbiano preso atto della situazione. Il punto è la variabile tempo. La Commissione consegnerà a fine maggio un documento che ipotizzerà lo stop alla dipendenza dal gas russo sul finire del decennio. Allo stesso tempo Bruxelles lavora per acquisti comuni per la Ue su mercati alternativi e secondo la logica della differenziazione si stanno muovendo i Paesi più coinvolti (tra questi Germania e Italia).

La verità è che però servirebbe qualche azione concreta e immediata. Inutile parlare di un quinto pacchetto ancora inasprito di sanzioni, se non comparirà nella lista dei prodotti o delle aziende qualche connessione al mondo dell’energia. Ma difficilmente questo potrà avvenire mantenendo intatta quell’unità all’interno della Ue che per ora nemmeno l’emergenza umanitaria legata agli sfollati ucraini che stanno migrando verso ovest ha messo in discussione. Il gas rischia di tramutarsi nella vera e propria “linea del Piave” per Berlino e per Roma.

Questo è il primo convitato di pietra, rispetto al quale peraltro gli Usa potrebbero offrire un seppur parziale aiuto, sfruttando la loro sostanziale autonomia energetica (a proposito di “autonomia strategica”) e offrendo gas liquefatto all’Europa, almeno per surrogare in parte un calo degli acquisti da Mosca.

CINA CONVITATO DI PIETRA

Ma ve ne è un secondo, direttamente portato dentro le dinamiche euro-atlantiche dagli stessi Stati Uniti. Stiamo naturalmente facendo riferimento alla Cina. Pechino dopo essersi astenuta nel voto di condanna dell’Assemblea generale dell’Onu subito dopo l’aggressione a Kiev, ha se possibile confermato e rilanciato votando a favore della proposta russa di istituire un protettorato umanitario sull’Ucraina, presentata in Consiglio di Sicurezza e arenatasi con 13 astenuti e solo due favorevoli, appunto Mosca e Pechino.

Pechino vive una situazione di evidente imbarazzo diplomatico. Da un lato vi è infatti l’amicizia “senza limiti” sancita dall’incontro tra Putin e Xi Jinping il 4 febbraio scorso paragonabile soltanto alle “affinità elettive” tra Mao e Stalin di inizio anni Cinquanta dello scorso secolo. Dall’altro vi è la violazione della sovranità ucraina, le immagini delle devastazioni dei centri urbani per opera dell’esercito russo che non stanno piacendo al mondo cinese e, soprattutto, un compattamento del fronte occidentale in Europa, e specularmente degli alleati di Washington in Asia, che impensierisce non poco Pechino.

Ecco allora che Pechino diventa il secondo convitato di pietra al valzer di vertici di Bruxelles. Per il presidente statunitense il rafforzamento del fianco europeo è direttamente funzionale alla ripresa del suo pivot to Asia in versione edulcorata (ma comunque attiva) rispetto all’epoca Obama e Trump. Anche su questo dossier l’unità europea è seriamente a rischio, con approcci molto differenti a seconda degli interessi commerciali e industriali in campo (Berlino e Parigi su tutti appaiono molto cauti).

MA LA UE È PRONTA A UN SALTO DI QUALITÀ?

Il prossimo primo aprile, giorno del vertice Ue-Cina, è previsto un altro decisivo test per capire quanto sia saldo il fronte europeo antirusso. Sul tavolo ci sarà il trattato sugli investimenti firmato su iniziativa intempestiva di Merkel a fine 2020. Nel corso dell’ultimo anno i contenziosi tra Bruxelles e Pechino non sono mancati: le sanzioni contro i parlamentari europei e gli ambasciatori del Comitato politico e di sicurezza, le campagne di disinformazione, la rappresaglia contro la Lituania, rea di aver aperto l’ufficio di rappresentanza a Taiwan.

Bruxelles sarà in grado di mettere sul tavolo il peso dell’interscambio commerciale con Pechino, invitando Xi a moderare ed eventualmente richiamare all’ordine l’alleato russo? A Pechino ostentano ottimismo evidenziando la vera e propria dipendenza europea per le catene di approvvigionamento in importanti settori industriali. In realtà i margini di manovra delle principali economie europee sono almeno in parte aumentati anche come risposta alla crisi pandemica e in generale a seguito di un processo di re-industrializzazione ancora allo stato embrionale ma comunque in atto. Il cosiddetto “disaccoppiamento” tra Cina ed Europa non sembra perseguito né da Pechino, né da Bruxelles, ma dopo il 24 febbraio si è tramutato in una opzione comunque sul terreno.

Insomma, mentre si apre il secondo mese di eroica quanto tragica resistenza ucraina all’invasore russo, la domanda da porsi e la cui risposta potrà essere tratta dalla conclusione della due giorni di vertici ospitati a Bruxelles è se i Paesi della Ue siano o meno pronti a un ulteriore salto di qualità politico nei confronti di Mosca e Pechino.

Ma vi è forse un quesito ancora più esplicito e diretto da avanzare: le opinioni pubbliche dei singoli Paesi membri sono in grado di non limitarsi all’indignazione morale per ciò che avviene in Ucraina e alla lamentatio sull’inefficacia diplomatica e militare dell’Europa? E sono pronti ad assumersi le conseguenze economiche e i costi sociali di un vero protagonismo europeo in questa terza decade del XXI secolo?

Ridurre anche sensibilmente la dipendenza energetica dalla Russia e fare la voce grossa spingendo Pechino a moderare Putin implica essere poi disposti a patire lacrime e sangue. Più azione implica passare il Rubicone e accettare tutte le incognite che questo comporta. Immaginarsi altre fantasiose alternative significa vivere nel mondo dei sogni e rifuggire la drammatica realtà che ci troviamo a vivere.


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