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Il gasdotto libico

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Vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso. Un proverbio che calza a pennello per descrivere la situazione in cui si dibatte (non da ora, ma da alcuni decenni) l’Italia alla costante ricerca di un’autonomia energetica che è lungi però dall’essere stata raggiunta.

Povero com’è di materie prime, soprattutto energetiche (gas naturale e petrolio), da usare per il riscaldamento, l’autotrazione e la produzione di energia elettrica, il Paese ha bisogno di acquistarle da chi ne possiede. Per farlo, però, deve contrattare con i venditori quantità e prezzi, restando esposto al rischio dei cambi di direzione delle strategie di geopolitica e politica commerciale degli Stati fornitori.

RISCHIO DIPENDENZA DA PAESI INSTABILI

Così, l’auspicata autonomia energetica, almeno finché dipenderà dalle fonti fossili, più che una possibilità reale, si trasforma in una petizione di principio, mentre le rinnovabili non danno ancora quanto ci si aspetterebbe, pur non mancando gli investimenti, l’ultimo dei quali è quello della Repower Renewables che progetta di realizzare nel Mar Jonio, di fronte a Catania, un mega parco eolico del valore di oltre un miliardo di euro e mille nuovi posti di lavoro.

L’Italia, infatti, importa dall’estero quasi tutto il gas che consuma: 72,75 miliardi di metri cubi (tra cui 9,97 miliardi di Gnl), pari al 95,6% dei consumi nazionali. Importiamo 29,07 miliardi di metri cubi, il 38,2% del gas utilizzato, dalla Russia, che nonostante i “tagli” resta ancora oggi il nostro principale fornitore. Nel 2012 la percentuale era attorno al 30%, ma nel 2015 era salita al 44%.
Oltre che dalla Russia, l’Italia importa gas dall’Algeria (27,8%), dall’Azerbaijan (9,5%), dalla Libia (4,2%) e dal Nord Europa, Norvegia e Olanda su tutti (2,9%). Il 13,1% del gas che consumiamo arriva sotto forma di Gnl, in prevalenza dal Qatar. Dal sottosuolo, invece, ne estraiamo 3,34 miliardi, pari al 4,4% del gas che consumiamo (abbiamo tra i 70 e i 90 miliardi di metri cubi di riserve accertate, ma la legge n° 133 del 2008 ha imposto divieti all’estrazione di gas nell’Adriatico settentrionale, dove ci sono le maggiori quantità).

La guerra in Ucraina e le sanzioni con cui l’Italia ha colpito la Russia hanno spinto Roma a tentare di affrancarsi da Mosca, incrementando l’import da altri Paesi. Per cui, se prima del conflitto arrivava da Mosca il 40% circa di gas, oggi ne arriva il 25%, e il 15% di differenza dovrà essere assicurato da altri fornitori: Algeria, Azerbaijan e Libia.

Così facendo, però, l’Italia si toglie dalla padella ma rischia di cadere nella brace. E lo stiamo toccando con mano proprio negli ultimi giorni guardando ai fornitori diversi dalla Russia: la Libia, Paese politicamente instabile da oltre un decennio, dalla caduta del colonnello Gheddafi (2011), e l’Algeria, la cui compagnia statale di idrocarburi, la Sonatrach, ha annunciato di voler aumentare i prezzi del gas e di aver avviato contatti con i partner europei, tra cui l’Italia, per rivedere le clausole contrattuali delle forniture, dopo la fiammata delle quotazioni sui mercati (ieri ad Amsterdam ha raggiunto i 161 euro al megawattora, con un rialzo del 9,2%).

IL PROGETTO IN SICILIA

L’Italia resta dunque “ostaggio” dei Paesi (dei loro interessi geopolitici, nonché delle loro strategie e politiche commerciali) che la riforniscono di materie energetiche da fonte fossile, mentre le energie rinnovabili, secondo il Rapporto mensile sul sistema elettrico di Terna, a maggio 2022 hanno contribuito con il 44,6% alla produzione elettrica nazionale, coprendo il 37% dei consumi (dall’inizio dell’anno, invece, la produzione verde è stata del 37,2% per una copertura della domanda del 32,6%).

Per fortuna l’interesse di società domestiche ed estere a continuare a investire nelle rinnovabili non è venuta meno nonostante gli ostacoli burocratici, le remore delle comunità locali e la discontinuità propria di queste fonti energetiche (eolico, fotovoltaico, idroelettrico).

Un esempio? Dopo la partecipazione alla manifestazione di interesse del ministero della Transizione ecologica per gli impianti eolici offshore galleggianti, Repower Renewables (la joint venture realizzata da Repower AG, operatore svizzero, tramite la filiale italiana, Repower Italia e Omnes, investitore francese di private equity che opera attraverso il fondo Capenergie 3) ha presentato alla Capitaneria di Porto di Catania la domanda di concessione demaniale marittima per la realizzazione di un parco eolico offshore di 33 turbine eoliche con asse orientabile da 15 MW ciascuna per complessivi 495 MW.

Il progetto si colloca nel Mar Ionio, in posizione antistante alla costa orientale della Sicilia, a una distanza minima di circa 36,2 km dalla costa siciliana e 36,7 km da quella calabrese. L’iniziativa vale tra 1,2 e 1,4 miliardi di euro e potrà generare oltre mille posti di lavoro tra quelli occorrenti per la realizzazione del parco eolico e quelli che dovranno occuparsi della gestione e della manutenzione.

Il tratto di mare interessato è quello davanti a Catania: i cavi sottomarini verrebbero collegati alla terraferma in un punto a sud dell’aeroporto Fontanarossa per poi percorrere circa 10 Km interrati fino al punto di connessione con la rete di trasmissione nazionale dell’energia elettrica situata nei pressi della centrale di Terna, a sud della zona industriale di Pantano d’Arci.

LE RESISTENZE

«La collocazione degli impianti in mare ha il vantaggio di offrire una migliore risorsa eolica e una migliore producibilità energetica, durabilità delle parti meccaniche e reperibilità di siti, essendo quelli onshore soggetti a saturazione, pure per la non facile accettazione da parte delle popolazioni locali nelle aree di installazione» spiega la relazione di accompagnamento della domanda della società.

In precedenza, la società aveva presentato richieste di concessioni demaniali per sfruttare l’eolico con impianti di tipo floating alle capitanerie di Porto di Crotone e di Sarroch (Cagliari). Per quanto il tema delle fonti energetiche rinnovabili sia ormai al centro delle politiche non solo ambientali ma anche economiche del governo, pure per l’impatto del conflitto russo-ucraino nella capacità di approvvigionamento energetico, l’idea che i parchi eolici vengano realizzati in mare ha in ogni modo incontrato resistenze: sotto il profilo paesaggistico, ma anche per le conseguenze (al momento ipotetiche) sulla flora, sulla fauna e sulla pesca.


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