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Xi-Jinping

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La Cina sta attraversando una congiuntura economica del tutto nuova rispetto agli ultimi 40 anni. Siamo stati tutti abituati ad una crescita del suo PIL a due cifre, che ha portato il Dragone a uno sviluppo esponenziale del proprio sistema economico; nel secondo trimestre del 2022 la dinamica è stata invece quasi piatta (+0,4% del PIL), allo stesso modo gli aggiornamenti di questi giorni preoccupano non poco la leadership del Partito e in fondo tutti noi visto che nell’ultimo decennio circa il 30% della crescita del PIL mondiale è stato a trazione cinese.

Sono state pubblicate, in particolare, statistiche che evidenziano un brusco calo dell’attività dei consumatori e del sistema manifatturiero e una disoccupazione giovanile di quasi il 20%, dato del tutto confrontabile con quello italiano. Altre note di agenzia hanno aggiunto ulteriori elementi di negatività, palesando la volontà di importanti aziende occidentali di adottare politiche di parziale reshoring dei propri insediamenti produttivi operativi in Cina: il caso più eclatante è quello di Apple, che ha imposto a Foxconn di produrre parte degli Smart Watch e dei Mac Book in Vietnam in nome di una prospettiva produttiva “China plus one”.

Quali le ragioni alla base di questa discontinuità? Vi sono fattori congiunturali e determinanti strutturali. I primi sono quelli su cui i media occidentali si focalizzano: sono in molti a vedere nella politica a tolleranza zero sul Covid19 la causa di questo improvviso rallentamento dell’economia cinese. L’ossessione del Partito Comunista per la diffusione dei contagi sta certamente determinando chiusure temporanee di insediamenti produttivi nelle varie città cinesi ed è responsabile del clima di incertezza e sfiducia che caratterizza la popolazione – poco propensa ad esprimere una domanda di consumo all’altezza delle aspettative del Partito – e l’imprenditoria – che sta riducendo gli investimenti in tecnologia.

Tuttavia, se fosse l’unica ragione alla base della dinamica attuale del Dragone non ci troveremmo di fronte ad una situazione preoccupante: una volta rimossa la causa – ovvero la tolleranza zero per il contagio – Pechino ritornerebbe presto alla usuale (e vertiginosa) crescita. Vi sono invece ragioni ben più profonde che, a bocce ferme, impediranno alla Cina di riprendere un positivo percorso di crescita; ne individuo almeno tre. Il livello di indebitamento delle pubbliche amministrazioni è molto, troppo alto: oltre il 120% del PIL quando nel 2014 era (solo) il 60%; questo rende poco percorribile il varo di misure di stimolo come quelle messe in campo in occasione della crisi del 2008.

In secondo luogo, la qualità delle infrastrutture cinesi è oggi talmente elevata da rendere poco conveniente l’adozione, su scala massiva, di piani di investimento in infrastrutture, una misura frequentemente adottata negli ultimi decenni da Pechino per sostenere la crescita della sua economia – grazie al conseguente impatto positivo su produttività e occupazione –: è stata insomma ormai raggiunta la soglia di saturazione; in questa prospettiva, Pechino non ha più a disposizione una leva con cui ha tradizionalmente sempre sostenuto il PIL del Paese. È infine cambiata l’immagine e il livello di rischio che il mondo occidentale attribuisce alla Cina: fino al pre-Covid l’Europa vedeva nella Cina un Paese amico, che con il suo enorme mercato interno e i suoi prodotti a basso costo contribuiva al benessere del Vecchio Continente; oggi il Dragone è ritenuto un rivale sistemico, peraltro sempre più vicino all’Orso russo: una prospettiva che non può che impattare negativamente sull’economica cinese.

Se la Cina vuole pertanto evitare la middle income trap – che aveva colpito anche il Giappone al culmine della sua fase di crescita – deve avviare una transizione finalizzata a modificare i cavalli del suo motore economico. Infatti, per ragioni sia geopolitiche – questione di Taiwan, che impone alle imprese straniere di diversificare la propria presenza produttiva in Asia – che economiche – i costi del lavoro sono più che raddoppiati negli ultimi quindici anni – la Cina non può e non deve più vedersi come il workshop produttivo del mondo: troppo rischioso e poco realistico. Il motore economico cinese potrà riguadagnare potenza se il Partito Comunista avrà la lungimiranza di introdurre una piattaforma di sviluppo improntata su due priorità.

La prima fa riferimento all’aumento dell’incidenza della domanda interna, che oggi pesa per il 40% del PIL, un dato nettamente inferiore a quello dei Paesi sviluppati (la cui incidenza supera spesso il 70%); per questo obiettivo è indispensabile che venga varata una riforma del welfare in grado di rassicurare i cinesi con riferimento a vecchiaia e pensionamento: è infatti questo il fattore che, più di altri, deprime la propensione al consumo della popolazione, impegnata a risparmiare per assicurarsi una tranquilla vecchiaia.

La seconda priorità riguarda invece l’assoluta necessità di sostegno per il sistema delle imprese private, che al contrario di quanto si pensi è il vero pilastro della manifattura cinese (essendo responsabile di più del 70% del PIL); servono incentivi per gli investimenti delle imprese nella direzione dell’innovazione e, più in generale, della crescita del valore aggiunto dell’output realizzato. In questa prospettiva, la liberalizzazione del sistema finanziario nella direzione di lasciare gli istituti di credito liberi nel decidere i soggetti meritevoli di essere finanziati e una sempre maggiore attenzione alla tutela dei diritti di proprietà intellettuale rappresentano azioni coerenti.

Nel complesso serve che la Cina adotti interventi strumentali alla crescita e al consolidamento di una classe media, una borghesia in grado di rappresentare, come si verifica in tutte le economie evolute, l’architrave del suo paradigma di sviluppo industriale ed economico. Purtroppo, gli orientamenti espressi dal Presidente Xi vanno nella direzione opposta; sono infatti orientati ad attribuire un ruolo preminente in economia al Partito e alle aziende di stato; servirebbe invece maggiore continuità rispetto al pensiero di Deng Xiaoping, che era solito dire: “Arricchirsi non è peccato”. Speriamo che a valle del XX Congresso del Partito Comunista (si terrà tra ottobre e novembre di quest’anno) Xi Jinping, avendo ottenuto il terzo mandato, non abbia più bisogno di differenziarsi dai predecessori e adotti un programma più coerente a quello che ha garantito alla Cina una crescita economica senza paragoni nella storia moderna. Da Deng tutto è partito, è opportuno non discostarsi troppo.


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