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L’occupazione tiene, ma non nel Mezzogiorno dove si amplia la distanza con il resto del Paese. E cresce anche la pattuglia degli scoraggiati che non cercano lavoro perché non hanno alcuna fiducia di poterlo trovare. È la fotografia scattata dall’Istat relativa al terzo trimestre dell’anno che certifica una sostanziale stabilità rispetto al trimestre precedente e una crescita del 2,7% sullo stesso periodo del 2021.

La flessione degli occupati è di 12mila unità ed è il risultato della flessione dei dipendenti a termine che non è stata compensata da quelli a tempo indeterminato (+34mila unità) e dagli autonomi (+12mila). A ottobre però, secondo i dati provvisori, si dovrebbe rilevare un incremento sia degli occupati (+0,4%) che del tasso di occupazione (+0,2%).

Nel terzo trimestre rispetto a quello precedente resta stabile anche il costo del lavoro per unità (Ula) che in termini congiunturali registra un calo nell’industria (-0,4%) e una lieve crescita nei servizi (+0,1%); in termini tendenziali, invece, sale sia nell’industria (+0,5%) che in misura più lieve, nei servizi (+0,1%).

Anche le retribuzioni per Ula in termini congiunturali si riducono nell’industria (-0,3%) e aumentano nei servizi (+0,1%); su base annua industria e servizi segnano rispettivamente +0,5% e +0,3%. Il costo del lavoro è il più basso della media dell’Eurozona, ma è appesantito dai contributi.

Un dato significativo che emerge dal report è quello delle persone in cerca di occupazione che si contrae del 12,9% e coinvolge sia coloro che hanno esperienze lavorative sia quelli in cerca del primo impiego. E calano anche gli inattivi, mentre è sempre più ampia la platea degli scoraggiati (+8,4%) che sono convinti comunque di non riuscire a trovare un “posto”. Ed è preoccupante la situazione del Mezzogiorno che sul fronte del lavoro si allontana dal resto del Paese e dall’Unione europea. In dodici trimestri la crescita è stata più vivace rispetto al Centro Nord, poi però il Sud ha ingranato la retromarcia e si riallarga così il gap territoriale. Dopo anni di crisi e ripresa lentissima, dal 2014 le regioni meridionali erano ripartite e dalla pandemia, che ha penalizzato di più il Centro Nord, il tasso di occupazione si è avvicinato a quello del resto dell’Italia. Ora la china torna discendente e conferma, secondo la valutazione dell’Istat “una debolezza strutturale del mercato del lavoro del Mezzogiorno che non accenna a modificarsi”.

Il divario territoriale è ancora più accentuato per le donne. Così come la classe di età più penalizzata è quella tra i 35 e 49 anni rispetto agli under 35 e ai 50-64enni. Lo svantaggio è evidente anche in rapporto con la media Ue: in base all’ultimo dato disponibile relativo al secondo trimestre dell’anno, il tasso di occupazione dei 15-64enni del Mezzogiorno è inferiore di 22,7 punti a quello medio Ue, distanza di oltre 8 volte più elevata di quella registrata dal Centro-nord (-2,7 punti dalla media Ue). Dall’analisi Istat spicca la riduzione dei divari per titolo di studio. Per chi ha conseguito la licenza media la crescita del tasso di occupazione è dell’1,2% maggiore rispetto al +0,5% dei diplomati e al +0,6% dei laureati.

Stesso trend per il calo della disoccupazione. Il tasso di inattività è più significativo per diplomati e laureati anche se questi ultimi hanno maggiori chance di trovare lavoro con uno stacco di 13 punti rispetto a chi ha un diploma e di 33 punti se si considerano i possessori della sola licenza media. Il tasso di disoccupazione infatti passa dal 4,2% tra i laureati al 7,6% tra i diplomati fino a raggiungere il 10,6% per chi ha conseguito un titolo più basso. A livello di attività produttive il dato tendenziale premia industria (+3,4%) e costruzioni (+5,2%), quest’ultimo settore però ha registrato un segno meno (1,6%) sul secondo trimestre anche forse per le incertezze sul futuro dei vari bonus.

In assoluta controtendenza, sia rispetto al trimestre precedente che sullo stesso periodo del 2021, è l’agricoltura che inanella rispettivamente -2,7 e -2,2%. Un settore colpito pesantemente dalla crisi energetica e dall’impennata dei costi delle materie prime e che da tempo lancia allarmi sulle difficoltà a reperire manodopera. Con il malessere crescente nel settore, secondo la Coldiretti, a rischio ci sono le forniture alimentari. È vero che a salvare i raccolti e quindi i prodotti alimentari ci pensano i pensionati che continuano a lavorare nei campi. Il 16,2% dei pensionati italiani, secondo quanto emerge dal report Istat sulle condizioni di vita di questa categoria, è infatti occupato infatti nei campi. Con un aumento record del 22,4% nel 2021 rispetto al 2019.

Ma il problema va risolto strutturalmente “con formule più adeguate – ha sollecitato Coldiretti – che garantiscano maggiore semplificazione per le imprese e le necessarie tutele per i lavoratori agricoli attraverso il confronto con le Istituzioni e i sindacati”. Ma è necessario soprattutto emanare immediatamente il decreto flussi 2023 per l’ingresso regolare di almeno centomila stagionali necessari al settore agricolo già dai primi mesi del nuovo anno con l’avvio delle operazioni in campo per combattere il caporalato e potenziare la produzione di cibo.


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