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UNA vita lunga quasi un secolo, un regno lungo più di settanta finiscono in un giorno che non è più d’estate ma non è ancora d’autunno, in un amato castello in Scozia, a Balmoral: la Gran Bretagna ha perso la sua Regina, ma forse è gran parte del mondo che l’ha persa. Perché quasi ovunque se dicevi “la Regina” intendevi Elizabeth Alexandra Mary, la principessina nata il 21 aprile del 1926 che non era destinata al trono, ma a una di quelle vite da “romantica signora inglese”, campagna, cani e cavalli, senza problemi economici, intendevi Elisabetta II.

Di quella vita possibile, ma impossibile da realizzare a pieno perché lo zio re s’innamorò di una bidivorziata americana e rinunciò alla corona per questo amore di cui poi lui e lei furono prigionieri per sempre. Così la principessina, che già s’era abituata a cavalcare il suo primo pony, una shetland di nome Peggy che il papà ancora semplice duca (di York) le regalò a quattro anni (il primo cane, una corgi di nome Susan, lo ebbe in  omaggio a 18 anni e da allora ha giocato con una trentina di discendenti da Susan), diventò principessa ereditaria.

Diventò anche autista e meccanico di camion da militare in tempo di guerra, quando la Royal Family fu d’esempio alla resistenza britannica sotto le bombe di Hitler e sua madre, Elisabetta anche lei, era indicata da Hitler stesso come “la donna più pericolosa d’Europa”, proprio per quel suo non volersi muovere da Londra e testimoniare al popolo britannico di che pasta bisognasse esser fatti al momento.

Fu in quel periodo adolescente che Elisabetta s’innamorò di un principe bello e squattrinato, Filippo. Sarebbero rimasti insieme per sempre, giovani, adulti, vecchi e se hanno avuto problemi (e ne avranno avuti: tra di loro, con i figli, con le nuore) li hanno risolti all’insegna di un credo che ha ispirato la Regina: “never complain, never explain”, mai lamentarsi, mai giustificarsi. Elisabetta che, vestita a lutto (le avevano portato l’abito sull’aereo appena atterrato dal Kenya dove aveva saputo, nel 1952, di essere diventata regina per la scomparsa del grande re, il balbuziente Giorgio VI), è la stessa che, capelli ormai candidi, fisico striminzito e rattrappito, vestito a fiori, un bastone cui appoggiare il peso degli anni e degli affanni, che anche una Regina ha appena salutato il suo quindicesimo primo ministro.

Ecco: forse è questo il segreto della sua rassicurante presenza. E’ sempre stata la Regina. Gli inglesi sapevano che c’era, da qualche parte, fosse a Buckingham Palace che sa di muffa, fosse al castello di Windsor, fosse a Balmoral; fosse con in capo la pesantissima corona all’Abbazia di Westminster, oppure con un semplice foulard (di Hérmès) in un piovoso pomeriggio all’ippodromo, che probabilmente è stato il luogo delle sue maggiori felicità, pure se non ha mai vinto il Derby e questo era l’unico cruccio che abbia mai confessato; fosse a stringere le mani in una delle tante città del Commonwealth o degli Stati dei quali era Regina e che ora muoveranno verso un futuro repubblicano (i Caraibi, l’Australia, forse il Canada), oppure a fianco di James Bond per una clip che aprisse i Giochi di Londra 2012, i corgi fra i piedi, Elisabetta era sempre la Regina. Fosse la sovrana che non poteva parlare con il suo primo ministro in pubblico perché questi era divorziato e lei era il capo della Chiesa d’Inghilterra (che ironia: di una Chiesa nata da un divorzio, quello di Enrico VIII invaghito di Anna Bolena) o la madre che poi ha dovuto “sopportare” lo sfascio dei matrimoni di tre dei suoi quattro figli; fosse con l’impermeabile e il cappuccio davanti alle fiamme che stavano portandole via il Castello di Windsor in quell’annus horribilis come disse lei del 1992, oppure con un cappello in tinta con l’abito, i suoi famosi cappelli che prima ne fecero l’oggetto dello scherno internazionale, quando non c’erano ancora gli haters professionali, e poi è diventato un’icona di stile, Elisabetta era sempre la Regina.

Di lei hanno raccontato tutti. Ma di quello che si vedeva o che lasciava vedere in questa vita che, “per lunga o breve che sia, sarà sempre al servizio della grande famiglia del Commonwealth” come ebbe a promettere giovinetta ed ha mantenuto la parola. Quello che era la Regina era sotto gli occhi del mondo: perfino un intruder entrato a Buckingham Palace tanti anni fa, beffando la sicurezza, aveva potuto raccontare di lei: “Ha i capelli bianchi: ho visto la parrucca sul comodino” raccontò, essendo arrivato fino in camera da letto, dove l’imperturbabile sovrana gli offrì un whisky ed all’assenso dello sprovveduto suonò il campanello richiamando così la sicurezza che arrestò l’intruso.

Politicamente, si dice, ha sempre “amato” Churchill e al contrario la Thatcher; il gesto più plateale fu quando, in visita in Africa mentre si discuteva di sanzioni e di apartheid, “scandalizzò” tutti ballando con un leader nero. Del resto Nelson Mandela, di cui fu amica, era l’unico a poterla chiamare semplicemente “Elizabeth”. “Scandalizzò” tutti anche quando, in occasione del primo dei suoi tanti Giubilei, una sua cavalla Dumferline, vinse le Oaks di Espom e il fantino, Willie Carson, sceso di sella, le dette una pacca sulla spalla. Toccare la Regina? Lesa maestà. Tutti aspettarono l’arrogante reazione, ma Elisabetta sorrise e il giorno dopo un messo reale arrivò a casa Carson donando al fantino un paio di gemelli con il sovrano monogramma “EIIR”.

Se n’è andata a Balmoral, proprio il luogo nel quale conobbe il suo momento di maggior impopolarità, quando arrivò la notizia della morte di Diana. Fu allora che, dicono, la nonna vinse sulla Regina e rimase a consolare i nipoti; ma forse no: Diana, la “principessa del popolo”, era l’esatto contrario di lei, aveva della regalità un concetto postmoderno, mentre Elisabetta era stata educata al “dovere”, al “nascondere sentimenti e sensazioni”. “E’ tutto quello che ho imparato e che so”, le facevano dire in una battuta del bel film “The Queen”.

Dicono che avesse un formidabile senso dell’umorismo, e sennò come superare i cin cin della Regina Madre, le “ribellioni” della sorella Margaret, le “scappatelle” di Filippo, Carlo e Diana, Camilla, Andrea in odore di pedofilia e la di lui moglie Fergie la rossa, che proponeva l’alluce ad amanti e fotografi? Come passare da Churchill a Boris Johnson ed a Liz Truss? Come perdere l’impero? Come rischiare la disunione del Regno Unito? Come continuare una sfilata a cavallo durante “Trooping the colour”, i festeggiamenti per un compleanno, mentre qualcuno spara verso di lei colpi di pistola? Come prendere il thé con l’orsacchiotto Paddington per celebrare il proprio super Giubileo dei settant’anni? Come? Con frasi bellissime. Tipo “Ci incontreremo di nuovo” per incoraggiare i sudditi durante il lockdown. Tipo “I ricordi possono variare” per mettere a posto l’ultima arrivata, Meghan Markle e il suo zerbino, il principe Harry, spargitori di veleni a corte.

Di Elisabetta rimangono immagini: la sovrana twitta come una influencer, fa storie su instagram, si presta al selfie, ha una domanda gentile per ogni interlocutore, se non può dare udienza per via del Covid s’ingegna con zoom, ha il manto d’ermellino ma anche il burberry da campagna, la borsetta sempre al braccio perché con questa parla ai suoi “guardiani”, non sa rinunciare, fino a qualche mese fa, a una passeggiata a cavallo, vuole conoscere Papa Francesco, allinea la sua agenda dei viaggi di Stato alle corse dei cavalli, inaugura una linea di metropolitana e paga il biglietto, si affaccia al balcone e con gli anni caccia via quella folla di petulanti principi reali, solitamente nullafacenti e ben mantenuti, e resta con la famiglia ristretta, lei, Carlo, Camilla, William, Kate e i loro figli, al tempo della famiglia allargata. “The firm”, la ditta, chiamava il tutto il principe Filippo. Elisabetta è stata il miglior Ceo che la ditta potesse sperare.

Dio salvi la Regina non si canterà più per decenni, Dio salvi l’Inghilterra, il Commonwealth, il mondo.


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