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CHE il maggior partito italiano sia quello dell’astensione e che questo dato cresca costantemente, come ampiamente confermato dalle ultime elezioni, è già di per sé indicativo della disaffezione crescente e sfiducia dei cittadini nei confronti della politica e dell’intero sistema rappresentativo democratico. Su questo problema tutti i partiti di casa nostra, i loro leader e leaderini sono pronti a stracciarsi le vesti dopo ogni tornata elettorale e a promettere che, senza dubbio alcuno, essi sono pronti a pensare misure idonee a colmare lo iato fra governanti e governati. Naturalmente tale “spettacolo” è stato messo in atto anche a seguito delle elezioni del 25 settembre, fino poi a dar rapidamente corso a tutta una serie di comportamenti post-elettorali, da parte di vincitori e vinti, che non contribuiscono certo a imprimere nuova fiducia fra rappresentati e rappresentanti.

Si tratta comunque di un fenomeno che va ben oltre i nostri confini e che caratterizza a largo spettro la crisi delle democrazie contemporanee. Su questo tema la letteratura politologica in senso ampio ha da tempo puntato l’attenzione e particolarmente da quando è apparso evidente, (soprattutto a partire dall’inizio del nuovo millennio e progressivamente in misura geometrica fino al presente), che siamo lontani dal trionfo planetario della democrazia e dei suoi valori, come qualcuno aveva immaginato dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Non solo: ma anche all’interno delle stesse democrazie costituzionali si vanno facendo strada pericolosissimi nemici, pronti a minare persino i princìpi fondativi dello Stato di diritto.

Il tema delle nuove forme di populismo che si stanno affermando da noi come altrove è balzato potentemente alla ribalta, divenendo punto di riferimento obbligato del dibattito politico a ogni livello a proposito della/delle crisi della democrazia attuale. Così si è parlato di una vera e propria “ondata” di populismo, fino a definire l’epoca presente come “l’età del populismo”; si tratta di un termine, quest’ultimo, che negli ultimi vent’anni ha conosciuto una inaudita fortuna, trasformandosi in una specie di etichetta attraverso la quale classificare di volta in volta formazioni politiche radicali, leader dalle posizioni eterodosse o semplicemente uno stile di argomentazione aggressivo e semplificatorio.

Si veda per una sintetica ed attenta analisi del concetto di populismo, sia dal punto di vista storico che relativamente al rapporto fra populismo e democrazia, il bel saggio di Damiano Palano, “Populismo, populismi e democrazia”, 2022. A conclusione del lavoro appena indicato l’autore sottolinea come il populismo, nella sua stessa struttura, presenti una specie di implicita e pericolosa, anche se talvolta soltanto latente, tensione “totalitaria”. Infatti, nel suo orientamento a concepire il popolo come un “tutto” omogeneo e moralmente “puro”, il populismo ha in sé una congenita tendenza a negare i diritti delle minoranze, le quali ultime costituiscono invece un elemento fondamentale e costitutivo delle democrazie liberali.

Si tratta dunque dei lineamenti di una “vocazione anti-pluralista” che contrassegna il populismo nelle sue varie versioni, nella misura in cui è sotteso dall’ambizione di risolvere ogni conflitto fra parti diverse entro una supposta “armonia del tutto”. Non si tratta qui di addentrarci nell’analisi delle variegate cause che segnano ora il successo dei movimenti e dei leader populisti che, dalla feroce critica alle istituzioni rappresentative liberal-democratiche, dichiarano invece di voler tener fede alla “vox populi” senza mediazioni, voce del popolo di cui i singoli leader in questione si proclamano in prima persona quali incontaminati garanti. Ciò che mi preme mettere in rilevo è una importante matrice di fondo che fa da presupposto ai populismi, soprattutto nella loro versione attuale.

Occorre prendere atto infatti dell’esistenza di una “crisi” che prevede due elementi alla fin fine fortemente interrelati: la crisi dei meccanismi e dello “spirito della rappresentanza democratica” e la diffusione “di una crisi di fiducia nel funzionamento del sistema istituzionale delle democrazie mature”. I complicati itinerari di questa duplice polarità all’interno della quale si inscrive la politica del presente, sono oggetto delle approfondite considerazioni che Franco Di Sciullo svolge nel suo volume su “La democrazia della sfiducia” (Editoriale Scientifica, 2022). Significativamente egli titola il capitolo conclusivo “Dalla sfiducia nella rappresentanza alla rappresentanza della sfiducia”, dopo aver specificamente dato conto dei percorsi attraverso i quali nuove forze politiche hanno lavorato e lavorano per confermare e radicare il senso di insoddisfazione dei cittadini, contribuendo quindi a loro volta a indebolire ulteriormente la fiducia di questi ultimi nelle istituzioni.

All’orizzonte si profilano i rischi di una crisi che rischia di diventare ingovernabile per quanto attiene i fondamenti della democrazia stessa e che spiana la strada a ogni sorta di leaderismo anti-sistema. Le considerazioni riportate a chiusura del volume in oggetto, arricchite da una citazione finale tratta dai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio di Machiavelli, dovrebbero essere attentamente meditate non solo da tanti politici di casa nostra ma anche da chiunque abbia a cuore le sorti della nostra Repubblica e la sua difesa da ogni possibile deriva autoritaria: «Una democrazia della sfiducia, una politica fondata sulla sfiducia e alimentata dal sospetto, svilisce le istituzioni democratiche e genera disprezzo per l’ordinamento: sulle denunce circostanziate, formulate nelle sedi opportune, prendono il sopravvento “umori” che agitano la società e scuotono lo Stato. L’esito – già noto cinquecento anni fa – è il ricorso “a’ modi straordinari, che fanno rovinare tutta una repubblica”» (p. 191).


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