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Il cardinale Giovanni Angelo Becciu

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Quali che siano le strategie difensive in serbo per l’appello annunciato dai suoi legali subito dopo la sentenza che sabato pomeriggio ha condannato sua eminenza Angelo Becciu a cinque anni e sei mesi di reclusione per peculato e truffa, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a una multa di ottomila euro, è una Mani pulite vaticana che travolge come un terremoto le sacre stanze della Segreteria di Stato. Una Mani pulite che vede per la prima volta in assoluto un cardinale di Santa Romana Chiesa condannato per reati finanziari da un tribunale esclusivamente laico e operante all’interno delle Mura Leonine.

Una Mani pulite che squarcia il velo di complicità, connivenze e collusioni in una gigantesca macchina del malaffare che per anni ha unito alti prelati, zucchette porpora, consulenti, mediatori, broker e affaristi condannati anche loro a vario titolo. Ma è una Mani pulite che non può che soddisfare pienamente anche papa Francesco, da dieci anni impegnato a “riportare ordine e trasparenza” nelle disastrate vicende finanziarie vaticane. In quello che è stato definito dalla stampa anglosassone “the century trial”, il processo del secolo, Jorge Mario Bergoglio è anzi intervenuto di persona per ben quattro volte con i suoi “Rescripta”, integrazioni, per far ampliare l’orizzonte investigativo al Promotore di giustizia vaticano, di fatto il pm, Alessandro Diddi. Circostanza che ha permesso al presidente della Corte che ha pronunciato la sentenza, Giuseppe Pignatone, di sottolineare “l’amplissimo orizzonte anche di garanzie in cui si è svolto il dibattimento”.

Prova ne siano le 89 udienze in due anni e mezzo. Ma lo stesso Francesco era stato molto chiaro quando, in riferimento al processo in corso, si era espresso in termini inequivocabili: “Se da fuori è successo tante volte, è la prima volta che in Vaticano la pentola viene scoperchiata dall’interno”.

E che pentola. I sette anni del cardinale Angelo Becciu da sostituto della Segreteria di Stato dal 2011 al 2018 sono, nella sentenza di condanna, un corollario di uso illecito di fondi, malversazioni, investimenti sul filo dell’azzardo e versione dei fatti truffaldine. Nella vulgata comune le casse vaticane vengono date sempre come esangui e in profondo rosso. Peccato che si rivelino prodigiosamente rimpinguate di denaro fresco quando si tratta di fare uso criminale dei fondi pubblici vaticani.

’ così quando sua eminenza autorizza un investimento di duecento milioni e 500mila dollari per quote di Athena Hedge Fund di Raffaele Mincione (anch’egli condannato), un fondo ritenuto altamente speculativo e con scarsissime garanzie per gli investitori. Sta di fatto che l’ammontare dell’operazione autorizzata da Becciu corrispondeva quasi a un terzo dei fondi a disposizione della Segreteria di Stato vaticana. Ed è stata avanzata anche l’ipotesi che per avere liquidità si sia fatto ricorso perfino all’Obolo di San Pietro, vale a dire le offerte dei fedeli alla Chiesa: comportamento che dovrebbe risultare ripugnante per qualsiasi esponente in abito talare, figurarsi poi per un principe della Chiesa quale un cardinale. Ma tant’è. E questo è stato il primo e pesantissimo addebito di peculato per Becciu.

Tuttavia il detonatore dell’inchiesta che ha portato al processo vaticano, nato da una denuncia dello IOR, (Istituto Opere di Religione) è stata la disastrosa operazione di compravendita condotta dalla Segreteria di Stato, reggente Becciu, dell’immobile di lusso al numero 60 della Sloan Avenue londinese. Il cardinale e i suoi più stretti collaboratori decidono l’investimento in quella che era stata la sede dei blasonati magazzini di Harrods. Viene versata la cifra record di 350 milioni di sterline.

Nelle aspettative dell’entourage del porporato sardo, l’immobile avrebbe dovuto riqualificarsi fino a un valore di quattro-cinque volte di più. Non andò così, e il palazzo fu rivenduto, in perdita, a meno di 186 milioni. Alla fine del gioco di specchi tra intermediatori e consulenti, è risultato un ammanco di 137 milioni nelle casse della Segreteria di Stato. Una operazione fallimentare che tuttavia non ha scosso più di tanto sua eminenza nel suo ruolo di factotum finanziario.

Di fronte a tanta gestione dissennata e illecita dei fondi della Santa Sede, la risposta di papa Francesco è stata una decisa contromisura riformatrice com’è nel suo stile: ha accorpato tutti i centri di spesa, dai vari dicasteri vaticani alla Segreteria di Stato, creando l’Amministrazione del Patrimonio Apostolico (APSA) come centro unico di spesa. Una sorta di cassaforte vaticana per scongiurare speculazioni, raggiri e investimenti scriteriati.

In realtà altri due filoni d’inchiesta hanno riguardato il cardinale Becciu procurandogli una seconda accusa di peculato e un’altra di truffa. E non metterebbe in conto di accennarvi se non per far risaltare la tendenza del porporato a un uso illecito di fondi della Segreteria di Stato.

Ecco dunque i 575mila euro versati alla sua amica Cecilia Marogna (a sua volta condannata): la sedicente esperta di intelligence avrebbe dovuto far liberare una suora rapita in Mali. I soldi sarebbero andati invece in accessori di lusso e resort a cinque stelle. Ed ecco poi anche i 125mila euro disposti da Becciu in favore di una cooperativa agricola in Sardegna presieduta dal fratello Antonino.

Pagine oscure sulle quali i difensori del cardinale promettono battaglia in appello. Ma sono per ora ugualmente capitoli inquietanti di un vero e proprio “ assalto dei mercanti al tempio” portato alla luce dal primo processo della storia in Vaticano.
E si può credere che proprio al giro di boa dei suoi 87 anni, Francesco abbia qualche motivo in più di fiducia sulla tenuta della Chiesa. Il caso Becciu potrà fare il suo corso. Prima dei destini individuali viene l’istituzione.


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