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Luigi Di Maio

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LA SCISSIONE di Luigi Di Maio è la scossa definitiva che completa il terremoto del M5S. Manca un anno alla fine della legislatura e ancora qualche brandello della casa potrebbe crollare. Ma il più è fatto. L’addio dell’ex capo politico è, tra tutti, il collasso più grave. In precedenza le espulsioni e le fughe hanno riguardato perlopiù i peones. E qualche caso eccellente. Per esempio, Nicola Morra, già presidente del gruppo grillino al Senato nella precedente legislatura e presidente della commissione antimafia in questa. Oppure Barbara Lezzi, senatrice e già ministra per il Sud nel governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte. Oppure Vito Petrocelli, filorusso e filocinese presidente della commissione esteri del Senato.

Nessuno, però, aveva il profilo di Luigi Di Maio. Che a soli 36 anni può vantare un curriculum politico-istituzionale clamoroso. Dal 2013 al 2018 è stato il vicepresidente della camera dei deputati più giovane della storia. Capo politico del movimento dal 2017, dopo l’exploit elettorale pentastellato del 2018 ha condotto le lunghe trattative per la composizione del primo governo Conte. Nel quale è stato vicepremier e ministro dello sviluppo economico, del lavoro e delle politiche sociali. Successivamente, da ministro degli esteri, ha compiuto la sua definitiva trasformazione da ruspante miracolato di provincia a uomo delle istituzioni.

Oggi, il peso specifico di Di Maio è tale che la sua scissione rappresenta per i grillini lo sconquasso definitivo: l’anticasta che si fa casta. Dopo il discorso storico dell’Hotel Bernini, il M5s è ridotto a uno sgangherato simulacro delle origini. Un organismo nudo e senza futuro, schiacciato dalla rovina dei suoi difetti di fabbrica: lo sberleffo trozkista e filocinese di Beppe Grillo, il rifiuto della democrazia rappresentativa di Gianroberto Casaleggio nel nome di un distopico direttismo digitale, l’idiota guevarismo chavista e antiamerikano di Alessandro Di Battista, l’obliquo e inconcludente formalismo dell’avvocato Giuseppe Conte.

Una maionese impazzita di pulsioni antipolitiche tenuta insieme da quattro ingredienti fondamentali. Il populismo economico fondato sui sussidi di stato, chiuso alle logiche dello sviluppo e refrattario alla salvaguardia dei conti pubblici. Il giustizialismo antipolitico che avrebbe consegnato la vita pubblica e lo stato di diritto al paternalismo delle procure. L’ecologismo ingenuo e regressivo che porta dritto al precipizio della decrescita e della dipendenza energetica dall’estero. La diffidenza antieuropea e antiatlantica che rischiava di condurre il nostro paese fuori dall’euro, dal mercato unico europeo e dalla famiglia delle democrazie occidentali protette dalla Nato.

Se il programma grillino si fosse realizzato, l’Italia sarebbe stata travolta da una deriva argentino-venezuelana sul piano economico, da una deriva ungherese sul piano costituzionale e da una deriva bielorussa sul piano geopolitico. Per lungo tempo fedele alla linea, Luigi Di Maio è stato uno dei principali capipolo dell’esercito pentastellato. Come un Masaniello del 21° secolo, Giggino ‘o bibitaro, trasformato in tribuno della plebe, ha guidato la rivolta antipolitica dell’elettorato meridionale, poi ha conquistato il palazzo e, infine, ha annunciato al popolo l’abolizione della povertà. Tutto questo accadeva sotto il governo gialloverde, l’esecutivo più pazzo del mondo.

Successivamente, la realtà ha bussato alla porta. Prima la pandemia ha costretto il paese a confrontarsi con una tragica emergenza. Quindi, con i milioni di euro del Recovery Plan, l’Unione europea ha risvegliato il senso di responsabilità della classe politica italiana. Il resto lo ha fatto la minaccia della guerra alle porte dell’Europa. In questo lasso di tempo, Luigi Di Maio ha completamente ricalibrato la sua postura pubblica. Già dai tempi della vicepresidenza della camera appariva come il più impettito e inamidato dei grillini. Ma il passaggio definitivo da Masaniello a Machiavelli avviene soltanto in questa legislatura. Dopo aver ben pasciuto la bestia populista con i redditi di cittadinanza e le quote 100, Di Maio comincia a darsi un tono da statista. “Un amore chiamato politica”, il libro che il ministro degli esteri pubblica nell’autunno dell’anno scorso, è una grande operazione di ripulitura politica, un prodotto necessario per correggere, rifinire e rilanciare una nuova immagine. In definitiva, una formidabile abiura del populismo.

D’altra parte, la carriera politica del nostro ci racconta un personaggio singolare: navigato frequentatore dei palazzi sotto le mentite spoglie di un tribuno del popolo, democristiano mannaro travestito da iena ridens dell’anticasta, politicante dell’antica scuola napoletana nascosto nel costume da vendicatore degli oppressi. Alla fine, Luigi Di Maio è il perfetto prototipo del “giovane vecchio” della politica: campione del compromesso e artigiano della diplomazia grazie ad abilità proprie dei vecchi arnesi della politica, esercitate in un’età in cui molti suoi italici coetanei ancora vivono tra le braccia di mammà. “Posso dire di aver sempre cercato la politica, ma anche che la politica è sempre venuta a cercarmi”, scrive Giggino nella sua autobiografia, folgorato da machiavellico destino.

Nel frattempo, sono venuti a cercarlo i funzionari del ministero degli esteri: sarai pure un giovanotto populista, ma in quel ruolo non puoi sgarrare. Sotto tutoraggio del presidente della repubblica e del presidente del consiglio. Sotto il giudizio dei colleghi europei. Sotto lo stretto controllo degli alleati americani. Di Maio si è trasformato nell’alfiere dell’euroatlantismo. E sull’altare della fedeltà atlantica (e a Mario Draghi) ha distrutto quel che restava del movimento che lo aveva allevato. Così, nel discorso dell’Hotel Bernini ha esplicitamente chiuso la stagione del sovranismo populista.

Che cosa succederà adesso? Quale sarà la prossima metamorfosi di Giggino? ‘Insieme per il futuro’ è una sigla di transizione. Di Maio giura: siamo “in cammino”. Tradotto in francese si dice: “En Marche”! Dopo quelle di Masaniello e di Machiavelli, la prossima “M” potrebbe essere quella di Macron? Non dovremmo stupircene. Attenzione però. Puoi mettere insieme tanti bei nomi: sindaci (Sala e Brugnaro), senatori (Renzi), europarlamentari (Calenda). Ma sono tutti generali. La vera sfida sarà raccogliere le truppe.


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