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Giorgia Meloni

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Mancano meno di due mesi alle elezioni del 25 settembre. Il centrodestra sembra aver trovato la quadra da tempo: Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia correranno insieme. Da discutere restano la spartizione dei collegi uninominali e i punti del programma. Non è poco. Il centrosinistra è decisamente più indietro, dilaniato dalla frammentazione di un variegato gruppo di piccoli partiti che si contende il campo intorno al Partito Democratico. Sarà difficile trovare la coesione. Entrambi gli schieramenti, nel frattempo, non sono ancora in grado di rispondere a due domande cruciali. Chi è il (o la) leader della coalizione? E, in caso di vittoria, chi sarà il (o la) candidato premier da proporre al presidente Mattarella? Mentre già si litiga sulle alleanze e sulle candidature, questa coppia di domande resta ancora senza risposta.

A ben guardare, però, la domanda è una sola. Perché di norma, nelle democrazie occidentali succede che il capo del partito che vince (o che arriva primo nel caso di coalizione) è anche il soggetto destinato alla guida del governo. È successo in America, dove Joe Biden, leader dei Democratici e candidato alle presidenziali dopo il percorso delle primarie, è oggi il capo della Casa Bianca. È successo nel Regno Unito, dove Boris Johnson, vincitore della campagna elettorale contro Jeremy Corbyn, è transitato direttamente dalla guida dei conservatori britannici al numero 10 di Downing Street. È successo di recente in Francia, dove Emmanuel Macron, leader di En Marche, ha vinto seppur di poco le elezioni presidenziali conquistando la conferma per il secondo mandato. È successo anche a Madrid, dove Pedro Sanchez, capo del partito socialista spagnolo ha conquistato la premiership spagnola. È successo, infine, in Germania, dove, a causa della legge elettorale proporzionale e della frammentazione dei partiti, il governo è nato grazie a un sofferto accordo di coalizione realizzato fra socialisti, verdi e liberali, ma nessuno ha avuto dubbi sul fatto che a guidarlo fosse Olaf Scholz, il leader della Spd, il partito che ha raccolto il maggior numero di consensi.

In Italia, viceversa, il collegamento naturale tra la leadership del partito che vince le elezioni e la premiership non riesce a funzionare, tolta l’eccezione del quasi ventennio (1994-2011) di alternanza bipolare al governo tra Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Dall’incarico tecnico a Mario Monti fino ad oggi il collegamento tra leadership e premiership è sempre saltato. L’unica eccezione, forse, a dire il vero un po’ rocambolesca e nemmeno ‘esatta’, è stata quella di Matteo Renzi. Che era sì segretario del primo partito in Parlamento quando fu incaricato presidente del consiglio, ma che non aveva partecipato alle elezioni del 2013, subentrando a Pierluigi Bersani nel corso della legislatura. Anche la legislatura che sta per chiudersi ha mostrato che la diade leader/premier, del tutto scontata nelle altre democrazie occidentali, in Italia non funziona. La conseguenza? Governi dotati di scarsa legittimazione, sottoposti a ricatti continui e segnati da una vita troppo breve. Mai nelle condizioni di portare a compimento il proprio programma.

La situazione odierna non promette nulla di diverso. Il centrodestra sembra aver trovato un accordo che pare avvicinarsi al nesso leadership/premiership. Il partito che arriverà primo potrà indicare il premier. Ma la formula è volutamente ambigua e ha l’obiettivo di mettere in discussione il vantaggio di Giorgia Meloni, oggi in testa nei sondaggi. La verità è che Salvini, Berlusconi e Meloni correranno insieme sì, ma ognun per sé. La leader di Fratelli d’Italia sta impostando la campagna come un’alternativa tra lei ed Enrico Letta. La polarizzazione aiuta non solo perché evidenzia due visioni dell’Italia alternative, ma soprattutto perché stabilisce le basi per la scelta del futuro presidente del consiglio. La cosa irrita profondamente gli alleati che continuano a calare nei sondaggi e che invitano Meloni a usare più spesso il ‘Noi’. Il classico stratagemma di chi vuole inibire la forza dei leader più carismatici. Ma anche la spia di un potenziale boicottaggio al momento in cui, in caso di vittoria, bisognerà proporre a Mattarella il nome del presidente del consiglio. Insomma, non è affatto detto che il volo dei consensi garantisca alla Meloni l’atterraggio a Palazzo Chigi in autunno.

La situazione è ben più complicata sul fronte opposto. Com’è noto, lo statuto stesso del Pd, ispirato alla regola della coincidenza tra leadership e premiership nella logica della vocazione maggioritaria, prevede che il segretario del partito sia anche il candidato premier. Ma Letta si guarda bene dal cavalcare questa ipotesi per diversi motivi. Primo, perché il Pd, sebbene in crescita nei sondaggi, resta per ora una forza del 20-22 per cento. Di conseguenza, anche in caso di vittoria, si troverà a guidare una coalizione fatta di decine di anime e di frammenti che difficilmente gli riconoscerà la supremazia. Anzi, il ruolo di premier sarà certamente il primo oggetto della trattativa. Perfino Carlo Calenda, che nemmeno è certo di raggiungere il 10 per cento, si candida per Palazzo Chigi. Ultimo, ma non ultimo motivo: il Pd è un partito di oligarchie che mal digerisce i capi carismatici. Alla faccia della vocazione maggioritaria e della moderna potenza della leadership, il segretario è accettato solo in quanto primus inter pares.

Finora Enrico Letta è riuscito a navigare tranquillo proprio perché ha interpretato il suo ruolo come punto di equilibrio delle correnti. Non c’è motivo di cambiare lo stile di navigazione proprio adesso, con il rischio di irritare prima di tutto le diverse anime del suo stesso partito e, in seconda battuta, le varie tessere del mosaico di coalizione che sta cercando di ricomporre in vista della definizione delle liste. Ma condurre una campagna elettorale così, basata soltanto sulle alleanze tra partiti, senza sapere chi è il leader che alla fine della fiera guiderà il governo, non può funzionare. Le campagne elettorali politiche sono un equilibrio molto fragile che si basa su tre elementi: i partiti (cioè l’organizzazione), i programmi (che rendono concreta e valutabile la visione), il leader (che sintetizza la visione nel corso della campagna e poi realizza il programma alla guida del governo).

Gli attuali contendenti si presentano al via con molte incognite. I partiti sono frammentati e si guardano in cagnesco. I programmi sono inesistenti (tanto c’è da attuare il Pnrr), salvo qualche bandierina ideologica (dalla patrimoniale pro-giovani alla lotta contro gli sbarchi di migranti) buona solo per fare polemiche in tv. Come se non bastasse, non ci sono leader chiaramente candidati a guidare il paese. Questa è una falla del sistema, che prima o poi bisognerà affrontare in sede di riforme istituzionali. Nel frattempo, in queste condizioni, il rischio che le elezioni si risolvano in un nulla di fatto, limitandosi soltanto a ricalcolare i rapporti di forza tra i partiti, è molto elevato. E l’ipotesi che si torni a bussare alla porta di Mario Draghi per ricominciare da dove eravamo rimasti potrebbe non essere molto lontana dalla realtà.


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