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Enrico Letta

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Il partito democratico è tornato ai fondamentali: al “gnoti sauton’’ , “conosci te stesso”, dell’etica socratica. Infatti, in vista dell’Assemblea costituente il Nazareno ha distribuito tra gli iscritti (ma l’invito è rivolto anche ai simpatizzanti da quando si è deciso che è consentito candidarsi alla segreteria pur non avendo la tessera) per chiedere la loro opinione sulla identità del Pd.

Per fortuna non si tratta ancora di quella “identità di genere’’ di cui al ddl Zan, ma di un salto all’indietro ad oltre un secolo fa quando il Partito socialista si divideva tra riformisti e massimalisti e i primi erano considerati dai secondi degli avversari a cui attribuire la responsabilità delle sconfitte comuni.

Nell’ottobre scorso ricorreva il centenario della Marcia su Roma e molti articoli e saggi hanno ricordato quell’evento. Poche settimane prima – un secolo fa – si era svolto un episodio estremamente significativo dell’impotenza settaria del Psi di allora. A Roma dall’1 al 4 ottobre 1922 era stato convocato un Congresso nazionale col seguente ordine del giorno: “Situazione interna del Partito e sua attività politica nel Paese e nel Parlamento. Appoggio a indirizzo di Governo e partecipazione al potere nell’attuale regime’’.

I massimalisti decisero di espellere la corrente riformista e quella centrista in ossequio ai diktat della III Internazionale (“Il partito socialista, eliminato dal suo seno il blocco riformista-centrista, rinnova la sua adesione alla III Internazionale’’). Gli esiti del voto (32mila per i massimalisti contro 29mila per gli unitari) spaccarono il Partito a metà. Le prime critiche ai riformisti vennero già nella relazione del segretario Fioritto, il quale attribuì agli avversari interni la responsabilità dell’insuccesso dello sciopero generale del 30 luglio (uno sciopero politico per chiedere alle autorità di contrastare le violenze fasciste): “I riformisti (il gruppo dirigente della CGL, ndr) proclamando tale sciopero all’inizio della crisi e sospendendolo alla sua conclusione e definendolo legalitario, lo avevano fatto apparire al proletariati come uno strascico montecitoriale, snervando le masse più accese’’.

Poi intervenne Giacinto Menotti Serrati: “Il nostro compito non è quello di aiutare la borghesia a risolvere la propria crisi, ma quello di trarre dalla crisi i vantaggi rivoluzionari’’. Per i riformisti Modigliani sottolineò la necessità di distinguere fra ristretti gruppi plutocratici (…) e la borghesia democratica. Anche Claudio Treves sostenne l’opportunità di un’alleanza, anche non permanente, con altre forze politiche per “impedire che la reazione finisse per distruggere le conquiste e il patrimonio del proletariato’’.

Dopo Giacomo Matteotti, era di nuovo intervenuto Serrati sostenendo che “la logica del collaborazionismo avrebbe portato coloro che di esso si facevano fautori a collaborare col fascismo verso il quale andavano in quel momento le forze della borghesia’’. La mozione approvata riprendeva questo concetto e deliberava che “tutti gli aderenti alla frazione collaborazionista e quanti approvano le direttive segnate nel manifesto e nella mozione anzidetta, sono espulsi dal Psi’’.

Il discorso di addio venne svolto da Filippo Turati: “Mentre noi ce ne andiamo rientra il comunismo’’. A Turati rispose Serrati: “Il discorso di Turati ha dimostrato quanto l’operazione fosse necessaria’’. Non intendo fare paragoni tra la tragedia che incombeva su quel gruppo dirigente e la crisi di nervi di cui soffre quello del Pd, dopo la sconfitta del 25 settembre. Ma è inutile negare che i temi del dibattito evidenziano tracce dello stesso dna: per sconfiggere la destra è necessario andare sempre più a sinistra; rimuovere la tirannia del mercato e abbandonare l’”ordoliberismo”.

La Commissione degli 87 saggi, incaricati di riscrivere il profilo del partito rifondato sta demolendo il Manifesto dei Valori del 2007 che, dal Lingotto in poi, ha accompagnato la nascita e l’azione del Partito Democratico. Secondo Nadia Urbinati, la nuova vestale della sinistra dell’eguaglianza, il Manifesto dei valori del 2007 è «brutto, bolso, illeggibile, fatto di parole d’ordine, di burocratese». Poi si è corretta con un “inservibile”. Trattandosi della carta di identità di un partito politico – ha proseguito – quella vaghezza è quanto di peggio si possa avere, a meno che non sia stata disegnata col proposito di consentire progetti tra loro contrastanti, quindi un partito adatto a tutte le stagioni. E come deve agire – ci chiediamo – un partito se non vivere nella realtà della storia e proporsi di governare nel migliore dei modi possibili, date le circostanze in cui si trova ad operare? Siamo arrivati alla deriva, nel caso del Pd, di un partito che si pente di ciò per cui è nato (conquistare il potere).

I Dem vanno in giro, con la testa cosparsa di cenere, biasimandosi per aver governato per dieci degli ultimi undici anni pur senza aver vinto le elezioni. Un’affermazione siffatta, nel contesto di una Repubblica parlamentare, rasenta l’assurdo, perché evidentemente le elezioni, in quegli stessi anni, non le aveva vinte nessun altro partito mentre il Pd era stato in grado di contribuire alla formazione di governi che avevano ottenuto la fiducia del Parlamento.

A seguire, seppure a distanza, il dibattito (ri)costituente di un partito che è stato il perno del sistema politico dopo la fine del bipolarismo Prodi/Berlusconi, viene da chiedersi per quale motivo i Dem siano i primi a demolire ciò di cui dovrebbero vantarsi e a mettere all’indice quegli esponenti che, alla loro guida, hanno conseguito dei risultati importanti nell’economia, nel lavoro, nel welfare e nel campo (minato) dei diritti civili. Oggi si stanno interrogando se sia più di sinistra un progetto compiuto di riforma del mercato del lavoro come il jobs act o un’avventura legislativa, veramente inservibile, come il decreto dignità. Tony Blair ha governato per dieci anni nel Regno Unito, ma è considerato il principale responsabile della crisi della sinistra in Europa.

Durante la campagna elettorale fu proprio Enrico Letta a sconfessare un’intera stagione di egemonia della sinistra riformista: “Il programma del Pd supera finalmente il Jobs Act, sul modello di quanto fatto in Spagna contro il lavoro povero e precario. Il blairismo è archiviato. In tutta Europa sono rimasti solo Renzi e Calenda ad agitarlo come un feticcio ideologico”.

I dirigenti Pd hanno dimenticato le regole del “gioco dell’oca’’: se un giocatore viene rimandato alla casella di partenza, poi dovrà recuperare di nuovo il percorso compiuto fino al momento della penalità, per poter proseguire oltre, fino al traguardo. In altre parole, chi rinuncia ad una cultura di governo per inseguire vecchie o nuove chimere, rischia di non trovare più la pista che lo conduca fuori del deserto. Ma in fondo i Dem, al pari dello smemorato di Collegno, dimenticano, con facilità, il loro passato. Le amnesie sono la loro salvezza. Poi si ingegnano a trovare un nuovo nome. Fino a quando la gente non si accorgerà che a cambiare identità sono, di solito, i ricercati e i transgender.


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