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Francesco De Gregori

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Il nome di un celebre transatlantico – affondato più di un secolo fa nell’Oceano Atlantico con il suo carico di vite e di speranze – per rappresentare lo sfacelo morale di una generazione che era uscita a pezzi dalla «grande illusione» del ’68, misurandosi ben presto con i demoni della violenza politica e della lotta armata.

Eppure, il Titanic sul quale salì a bordo Francesco De Gregori nella primavera del 1982 non è affatto un catalogo di rimpianti o risentimenti: piuttosto, il Principe della canzone d’autore ha voluto mettere insieme i resti della biografia sentimentale di una generazione e di un mondo ormai sul punto di essere inghiottiti dalle onde del riflusso e del disimpegno. Quasi come se volesse cercare riparo dalla superficialità del presente, De Gregori sceglie una rotta eccentrica, che parte dalla bellezza sfumata e irraggiungibile dell’anonima protagonista di Belli capelli e arriva alle porte della Storia con la struggente San Lorenzo, ispirata al bombardamento che colpì il quartiere popolare di Roma la notte del 19 luglio 1943, passando per i lidi della nostalgia (come nella trascinante Rollo & his Jets, un omaggio ai bei tempi andati del rock and roll ascoltato alla radio, che occhieggia Crocodile Rock di Elton John) e del disincanto (le Centocinquanta stelle di «una notte ipocrita che sa di Coca Cola»).

Tuttavia, il cantautore romano non è un collezionista di istantanee: il suo mestiere somiglia a quello del ritrattista intento a catturare sul ponte di una nave i volti di un’umanità appartata che si guadagna da vivere lavorando sottocoperta e che, appena prima di partire, ammucchia i suoi sogni e i suoi desideri in valigie quasi sempre sbrindellate.

L’abbigliamento di un fuochista e I muscoli del Capitano compongono un dittico che ricostruisce da angolazioni opposte le storie dei nomadi del mare: da una parte, il giovane emigrante che si imbarca con i soldi nascosti nella cintura perché, come suggerisce sua mamma, «la gente oggi non ha più paura/nemmeno di rubare»; dall’altra il capitano tutto d’un pezzo che ignora l’allarme del mozzo, atterrito dai fantasmi di un futuro indecifrabile, invitandolo a proseguire la navigazione perché «c’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole». I passeggeri del Titanic, invece, avevano ben presente la loro destinazione: l’America in cui cercare fortuna, riscatto o, più prosaicamente, l’amore. Non c’è differenza di ceto che tenga: tutti, siano essi «signori» o «cafoni», hanno il diritto di sognare in grande. Compresa una quindicenne «innamorata del proprio cappello» che ha il privilegio di viaggiare in prima classe al seguito del padre, ansioso di farle conoscere il capitano del transatlantico.

De Gregori indugia poi su quegli umili passeggeri che scoprono con meraviglia le virtù della terza classe: «Questa cuccetta sembra un letto a due piazze/Ci si sta meglio che in ospedale».

Tra gli sconosciuti gregari che popolano le nove canzoni dell’album, spicca senz’altro Nino, il ragazzo «con le scarpette di gomma dura/Dodici anni e il cuore pieno di paura» consacrato dall’immortale La leva calcistica della classe ’68. Nino siamo tutti noi che, in quella fase di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, abbiamo immaginato di calciare il rigore decisivo nella finale dei Mondiali, scoprendo un attimo dopo di trovarci in un campetto spelacchiato e malinconicamente deserto. Eppure, il riscatto è dietro l’angolo: gli basta incrociare lo sguardo insolitamente convinto dell’allenatore per prendere coraggio, involarsi verso l’area e calciare d’istinto. La palla finisce in rete: Nino ha appena accarezzato la magia di un gesto irripetibile. E noi con lui. 


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