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Napoli, piazza Plebiscito

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Se il sistema del federalismo fiscale fosse stato equo, il comune che avrebbe guadagnato di più sarebbe stato quello di Giugliano, in Campania, dove oggi mancano all’appello 33 milioni di euro (270 euro pro capite).

Reggio Calabria avrebbe dovuto ricevere 41 milioni in più, 229 euro a testa. Seguono Crotone (3 milioni, 206 euro a cittadino), Taranto (39 milioni, 198 euro pro capite). Catanzaro (15 milioni, 168 euro pro capite), Bari (53 milioni, 166 euro pro capite). Ma il Comune che perde di più in termini assoluti è Napoli (159 milioni, 164 euro pro capite), fonte Opencivitas.

A distanza di 12 anni dalla legge Calderoli che ha messo in funzione il federalismo fiscale, gli effetti sono devastanti soprattutto per gli Enti locali del Sud: da un lato la mancata applicazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni introdotti dalla riforma del titolo V della Costituzione ma del tutto ignorati; e dall’altro il calcolo dei fabbisogni standard dei Comuni che altro non fa che ricalcare la vecchia spesa storica, hanno messo in ginocchio i Comuni del Mezzogiorno.

Una sottrazione di risorse, in tutti i settori, che ha finito per acuire il divario tra Nord e Sud. Il calcolo dei fabbisogni standard è il vero problema. Il metodo usato per la ripartizione del fondo perequativo riguarda i 6.700 comuni delle 15 regioni a statuto ordinario ed è basato su un calcolo che considera fabbisogni standard e capacità fiscali.

I fabbisogni standard sono indicatori che stimano per ogni ente locale, il fabbisogno finanziario necessario per svolgere le proprie funzioni fondamentali. Sono definiti in base alla spesa media per i servizi di comuni simili a quello considerato, per caratteristiche demografiche, socio-economiche e morfologiche.

La capacità fiscale, invece, è la stima delle risorse che un ente locale ricava dalle sole entrate tributarie del proprio territorio. Per decidere come distribuire il fondo perequativo, viene calcolata per ogni comune la differenza tra il suo fabbisogno standard totale e la sua capacità fiscale.

Non aver definito i livelli essenziali di prestazione delle funzioni fondamentali è stata una grave mancanza. Una lacuna che ha impedito di elaborare un sistema di finanziamento basato sulla reale necessità di servizi sul territorio.

Definire i Lep avrebbe infatti permesso di determinare quali comuni non riescono a garantirli e indirizzare le risorse nei territori più svantaggiati. Che non si sia fatto molto per “ricucire” il Paese e superare il criterio della spesa storica, lo mette nero su bianco la Corte dei Conti: «La riflessione sul finanziamento dei livelli di governo sub-centrali non dovrebbe prescindere da ciò che le risorse debbono finanziare. Su questo tema, il processo di decentramento italiano ha subìto diverse interruzioni. Dal lato delle funzioni fondamentali delle Regioni, non si è ancora pervenuti ad una definizione dei livelli essenziali delle prestazioni diverse da quella sanitaria, e di conseguenza non è ancora definito il percorso di superamento del criterio della spesa storica, né l’assetto complessivo del sistema di finanziamento».

È quanto si legge nel “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica” e il sottofinanziamento non riguarda soltanto le Regioni del Sud ma anche i Comuni: «Anche dal lato comunale – scrivono ancora i magistrati – appare fermo il processo di definizione dei fabbisogni legati alle funzioni fondamentali, e molta incertezza, negli anni, si è manifestata sul ruolo di specifiche fonti di finanziamento, con particolare riferimento ai prelievi di tipo immobiliare. Appaiono, inoltre, piuttosto incerti i meccanismi perequativi finora predisposti, sia per ciò che riguarda le modalità di distribuzione, sia per ciò che concerne l’estensione della perequazione dei livelli essenziali e delle capacità fiscali».

Il risultato? Sapete quando può spendere la città di Milano per garantire l’istruzione dei propri ragazzi? Mediamente 1.106 euro per ogni studente. Napoli, invece, 845 euro pro capite, Bari 737 euro, Reggio Calabria addirittura 540 euro; contro i 993 di Bologna e i 913 euro pro capite di Torino. Per gli asili nido il Comune di Reggio Calabria non può permettersi di stanziare, in media, più di 45 euro per ogni suo bambino, Milano spende, invece, 309 euro pro capite, Torino 208 euro, Bologna 246 euro; Bari e Napoli, rispettivamente, 181 e 142 euro per ogni bimbo.

Il quadro che viene fuori è quello di un’Italia spezzata in due, un Paese che, per forza di cose, viaggia a velocità diverse perché le Regioni e i Comuni non vengono posti nelle stesse condizioni. Anche sulla viabilità e infrastrutture, la forbice resta larga tra Sud e Nord: si va dai 63 euro pro capite investiti dalla Puglia agli 89 euro dell’Emilia Romagna. Per ogni bambino da 0 a 5 anni un sindaco calabrese può investire, mediamente, circa 126,8 euro per garantire i servizi per l’infanzia. In Liguria, la spesa pro capite dei Comuni per ogni bimbo della stessa età è, invece, di 1.377,9 euro.


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