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I festeggiamenti nelle piazze italiane dopo la notte di Wembley

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“ITALIANS do it better”, gli italiani lo fanno meglio: lo sport. Ed hanno ripreso a farlo al meglio non appena ne hanno avuto l’occasione. Poche cose recenti, da quando è cominciato il virus calante, via le primule e le chiacchiere: una ragazzina di 15 anni, Benedetta Pilato, ha nuotato da record del mondo mettendosi nella scia di Federica Pellegrini, che mondiali ne aveva segnati anni addietro; l’Italia del basket è andata a strappare la qualificazione olimpica, che non otteneva dal 2004, alla gigantesca Serbia in casa sua; e in casa loro, un falso campo neutro, l’Italia del calcio è andata a prendersi, con suo pieno merito, quella coppa che gli inglesi già avevano messo nel loro GPS come “coming home”. E invece, una Brexit tira l’altra, se ne resteranno fuori dall’Europa Unita ma anche fuori dalla coppa del desiderio.

La Regina può mandare messaggi, ma poi non è lei che va sul dischetto; Boris Johnson può fare il coatto come gli pare, ma poi non sta nella porta di calcio: al massimo sta sul portoncino del Numero 10 di Downing Street a farsi fotografare tifoso in cerca di like, che poi non è detto che saranno voti.

E l’Italia di Roberto Mancini vinceva il titolo che ogni altra Italia di ogni altro (però mondiale nel frattempo, con Bearzot ’82 e Lippi 2006) non portava in bacheca dal Sessantotto, quando l’imperativo era “pretendiamo l’impossibile”. E lo faceva, questa Italia da innamorare, qualche ora dopo che era accaduto qualcosa che gli anni passati senza non si contano, perché sono tutti quelli a disposizione, 144 anni di sacralità tennistica: un italiano, Matteo Berrettini, aveva appena giocato, primus inter Pietrangeli, Panatta e poco più, la finale di Wimbledon. Non l’aveva vinta, perché oltre la rete era Djokovic, numero uno del mondo dal “bel tempo che fu”, ma è uscito da quel campo centrale che è il Paradiso Terrestre del tennista, a testa alta, tanto alta da guardare lontano nel futuro.

Ecco, queste quattro “cosette” (e altre se ne potrebbero citare), accadute proprio alla vigilia delle Olimpiadi sotto vuoto di Tokyo, ci fanno ragionare. Deve essere stato particolarmente faticoso per lo sport e per gli atleti, di vertice e no, districarsi, tappati in casa, tra primule mai fiorite e virologi mai taciturni in un ambiente come quello italiano, nel quale chi ha governato lo sport ha dovuto supportare e sopportare la latitanza di chi a governato. Dov’era, dov’è la scuola anche prima della didattica a distanza? Nello sport è a distanza da sempre, e neppure è didattica.

Deve essere particolarmente riconosciuto che, sui blocchi della ripartenza, che gira nell’aria, lo sport la sta acchiappando fra i primi. Giovanni Malagò, riconfermato presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano all’ultima tornata elettorale, ne andrà orgoglioso: se c’era qualcosa che teneva su l’Italia nelle classifiche internazionali era lo sport, a inizio lista in ogni medagliere ed in ogni classifica o quasi (lo sport mica è solo le coppe europee di calcio, Messi e Neymar, sceicchi e fairplay finanziario finto). Se c’è qualcosa che, aspettando ripartenza e resilienza che verranno, è già rinato, questo qualcosa è lo sport. Che unisce un Paese come nient’altro: ci possiamo dividere per il campanile, guelfi e ghibellini, romanisti e laziali, milanisti e interisti, juventini e torinisti, ma ecco che viene l’Italia, la maglia azzurra, e se alla base del tifo niente divide più dello sport stracittadino, poi risulta vero che niente più dello sport unisce quando si tratta dei campioni di tutti.

Che questi ragazzi, i Maneskin di Roberto Mancini (Donnarumma è Damiano), se pure la domenica (e il lunedì e gli altri giorni della settimana) vestono colori sgargianti, poi, sul più bello, vestono d’azzurro. Anche Berrettini, che lo farà a Tokyo, pure se a Wimbledon era “all white” come impone il dress code di quella tradizione britannica, che magari vivrà presto la sua Brexit come l’ha vissuta a Wembley e dintorni il fair play. Lo sport moderno ha una sua bussola: la definiscono “legacy”, cioè quel che lascia- Quel che ci lasciano la vittoria degli azzurri di Mancini e la sconfitta vincente di Berrettini sono l’appartenenza a una comunità che ritroviamo, ahinoi, solo nello sport, l’insegnamento che il lavoro paga e che tanti ragazzi italiani sanno lavorare e non solo cliccare.

È bello sapere che a Wembley il presidente Mattarella ha detto “siamo nelle manone di Donnarumma”: era, il presidente, uno di noi. Di quelli che si sono sentiti “Fratelli d’Italia”, il tricolore sventolante, il cuore palpitante. Com’è bello essere italiani, da Trieste in giù: è lo sport, bellezza. Al Quirinale, fra arazzi e opere d’arte, ora Mattarella conserverà la maglia numero 10 degli azzurri e la racchetta di Matteo.


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