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Andrea Orlando

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Ieri, dopo due giorni di intenso dibattito, è stato sottoscritto a Milano dalle più importanti associazioni imprenditoriale e dalle confederazioni dell’area metropolitana, insieme all’amministrazione comunale, un Patto per il lavoro.

Altre iniziative che vanno oltre i negoziali contrattuali sono state avviate da alcune federazioni di categoria in accordo con le loro controparti. Se si guardano i Report (Cnel, Centri studi, ministero del Lavoro, ecc.) ci si accorge che i lavoratori italiani dispongono di un livello di copertura contrattuale tra i più elevati dei Paesi Ocse e che è molto diffusa – seppure nell’ambito di una struttura produttiva in cui sono assolutamente prevalenti le piccole imprese – la contrattazione decentrata su temi di qualità.

Sarebbe poi il caso di ricordare il grande contributo che le parti sociali hanno dato nell’agevolare una riapertura in relativa sicurezza delle aziende, dopo i 100 giorni di lockdown. Certo, queste operazioni si sono svolte sulla base di protocolli sottoscritti a livello nazionale e recepiti nei provvedimenti adottati dal governo. Ma senza un’effettiva collaborazione tra imprese, sindacati e lavoratori nei luoghi di lavoro i protocolli sarebbero rimasti a fare da tappezzeria ed ingiallire nelle bacheche; e la collaborazione non è mai venuta meno anche quando sono sorte le incomprensibili polemiche sul green pass.

Tanto che i decessi per infortunio da Covid-19 contratto in occasione di lavoro sono stati in tutto 823. Se si vuole, i decessi sono stati comunque troppi, ma si è trattato dello 0,6% di tutti i decessi verificatisi in Italia dall’inizio della pandemia.

Tutto ciò premesso per quali motivi le medesime associazioni datoriali e sindacali che in una città importante come Milano sono in grado di concordare una strategia per lo sviluppo, non riescono, a livello nazionale. a muoversi nella stessa direzione?

Eppure, i problemi sono tanti e sono tutti resi più gravi dalla guerra di aggressione della Russia all’Ucraina. Le catastrofi producono sempre delle rotture, mandano in frantumi gli assetti precedenti; e non è detto che sia possibile – soprattutto a breve – una stabilizzazione nell’ambito di nuovi equilibri. A prescindere dalle grandi partite che si giocheranno nei prossimi mesi per quanto riguarda l’attuazione del Pnrr, l’avvio di una nuova politica energetica, a partire da una fase di transizione operativa, emergono una serie di problemi attinenti alla quotidianità delle relazioni industriali che sarebbe opportuno impostare con una visione complessiva, concordata tra governo e parti sociali. Cominciamo dal “primum vivere”.

L’inflazione, che sembrava ormai un pezzo di archeologia del lavoro è ripartita (a marzo +6,5% su base annua). L’operazione che ha in testa il sindacato (leggi la Cgil) corrisponde ai canoni classici: la redistribuzione del reddito e della ricchezza. Maurizio Landini, intervenendo tra gli applausi dei delegati al recente Congresso di Articolo 1, non ha avuto dubbi: «Serve subito uno scostamento di bilancio e bisogna andare a prendere le risorse dove ci sono: chi si è arricchito in questi anni deve mettere mano al portafoglio, la responsabilità non può essere sempre a senso unico».

Non si è chiesto il Jean-Luc Mélenchon de noantri (un’amica giornalista francese mi ha fatto notare che il paragone è improprio perché Mélenchon ha una cultura di base) che cosa ci sia da redistribuire? L’ultima indagine rapida del Centro Studi della Confindustria (CSC) ha tracciato un quadro molto preoccupante, non solo per quanto riguarda i costi dell’energia e la sicurezza delle forniture, ma per la carenze delle materie prime, degli input intermedi, delle commodities e dei servizi. Tutti handicap avvertiti già nell’ultima parte del 2021 e ovviamente aggravati dopo lo scoppio della guerra.

Secondo il CSC – a fronte di tali problemi – il 16,4% delle imprese rispondenti ha già ridotto sensibilmente la produzione. Il peggioramento dell’indice di incertezza della politica economica, che per l’Italia è salito a 139,1 a marzo da 119,7 di febbraio (+38,4% rispetto al 4° trimestre del 2021), accresce i rischi di un pesante impatto sul tessuto produttivo italiano e di un significativo indebolimento dell’economia nella prima metà del 2022.

Anche se gli ultimissimi dati rimangono migliori delle previsioni (nel senso che i trend non vanno meglio ma meno peggio), il governo non vorrebbe che una rincorsa dei salari all’inflazione, finisse – come insegna l’esperienza del passato – per consolidarne l’incremento. A questo proposito è scoppiata una polemica tra il ministro Andrea Orlando e il presidente della Confindustria, Carlo Bonomi.

Il titolare del Lavoro, intervenendo al Congresso di Articolo 1, ha sostenuto che vi è un interesse generale nell’incremento delle retribuzioni allo scopo di sostenere il mercato interno, garantito, per giunta, da ristori alle imprese a condizione che rinnovino i contratti e aumentino le retribuzioni dei loro dipendenti. Il tutto in mancanza di una crescita effettiva, adeguata e sostenibile. Come se la circolazione della moneta potesse risolvere i problemi e il potere d’acquisto non venisse taglieggiato dall’inflazione.

In sostanza, la terapia proposta servirebbe ad un solo obiettivo: la crescita dell’inflazione ovvero l’illusione ottica di riscuotere a fine mese retribuzioni più alte. Forse sarebbe il caso di riprendere in considerazione – anche a livello nazionale – la proposta di un patto sociale scartato con troppa fretta e con la consueta arroganza. Evitando – come ha detto Bonomi – di buttarla in caciara.


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