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Attilio Fontana e Luca Zaia, governatori di Lombardia e Veneto

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Tanto tuonò che piovve. Non c’è pandemia, non c’è guerra in Ucraina, non ci sono risultati pessimi come quelli registrati durante la caduta della linea di comando nazionale (Stato-Regioni-Province-Comuni) nel periodo Covid, con tutti gli insuccessi della Lombardia, ma anche del Veneto, nel contrastare la pandemia, che abbiano fatto cambiare opinione.

Non c’è cambio di governo e di ministri che blocchi il processo. Siamo infatti passati dal ministro pugliese per gli Affari regionali, Francesco Boccia, professore di economia aziendale all’università del Molise del Pd, a Maria Stella Gelmini di Forza Italia, bresciana, che ha un’abilitazione alla professione che non ha preso a Brescia, la sua città, ma a Reggio Calabria perché aveva “bisogno di lavorare” e perché il sistema castale dell’avvocatura l’avrebbe esclusa nella sua città e in altre città del Nord.

DIRITTI INTOCCABILI

Ma nulla riesce a fermare il fuoco sacro dell’esigenza di normare ciò che è avvenuto di fatto: l’esistenza di due Paesi diversi. Il tema è di quelli cogenti e necessita di una soluzione, altrimenti le Regioni del Nord rischiano molto.

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Ricapitoliamo: la Costituzione prevede uguali trattamenti per ogni individuo in qualunque parte del Paese nasca. L’articolo 3 recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Corollario di tale articolo è che la spesa pro capite per ciascun individuo debba essere uguale.

Che tu nasca a Reggio Emilia o a Reggio Calabria, globalmente quello che lo Stato destina a ogni individuo dovrebbe essere di uguale ammontare. Simmetricamente il contributo di ciascuno al bilancio dello Stato dovrebbe essere proporzionale ai propri redditi, secondo il sistema che verrà adottato dalla normativa nazionale.

Così come tutti devono contribuire alla difesa dei confini, laddove il Paese fosse in pericolo, che questi riguardino la costa sicula o le Alpi. Con la Carta costituzionale si è immaginato un Paese nel quale i diritti e i doveri di tutti i cittadini dovevano essere uguali.

Da quando, però, Carlo Azeglio Ciampi ha istituito i Conti pubblici territoriali, che vengono gestiti dall’Agenzia della Coesione, si è registrato che rispetto alla spesa pro capite vi è una differenza di circa 60 miliardi che ogni anno viene sottratta al Sud.

Il Quotidiano del Sud ne ha fatto una battaglia. Sono stati pubblicati libri e articoli su tale differenza, anche se le pubblicazioni che mettono in discussione il calcolo sono parecchie. Alcuni sostengono che non va inserita la spesa della cosiddetta “pubblica amministrazione allargata”, altri che le pensioni non devono fare parte del calcolo, altri ancora che in ogni caso vi sia una differenza nel costo della vita tra le due parti per cui si sostiene che i miliardi destinati al Nord sono meno pesanti di quelli che vengono invece destinati al Sud.

IL NODO “SPESA STORICA”

Ma, al di là del tipo di calcolo e di cosa inserire, in realtà una differenza più o meno ampia è riconosciuta, ed è dovuta al fatto che si è lavorato sempre sulla base della spesa storica, per cui moltissime regioni del Nord, spesso amministrate meglio, hanno avuto alcuni servizi che alle Regioni del Sud non sono arrivati.

Anche nelle infrastrutture questo è accaduto, perché è evidente che se hai una rete stradale migliore hai anche bisogno di manutenerla e quindi di maggiori risorse. Un livellamento della spesa pro capite in un Paese come il nostro può avvenire solo se vi sono tassi di crescita talmente elevati da consentire di evitare di togliere a chi ha già e sostenere chi non ha.

È evidente che tali tassi di crescita sono stati finora come l’Araba fenice, per cui da quando i meridionali si sono tolti l’anello al naso e hanno cominciato a dibattere sull’ingiustizia derivante da tale distribuzione, oltreché dell’esigenza di appianare le differenze, le Regioni del Nord si sono ovviamente cominciate a preoccupare e hanno trovato un escamotage, che è quello di considerare il principio, anticostituzionale, che ogni Regione fondamentalmente si debba tenere quello che produce, tranne dare un piccolo aiuto alle Regioni più deboli.

Quindi si passa da un soggetto di diritto individuale, e quindi con parità di trattamento rispetto a qualunque altro individuo abiti il nostro Paese, a un soggetto Regione che si tiene le imposte che pagano i propri cittadini, tranne devolverne una parte per consentire che i Lep (Livelli essenziali di prestazione) siano garantiti in qualunque parte si nasca. Quei Lep che sono stati collegati alla riforma relativa all’autonomia differenziata. La difficoltà di attuazione di questi è nota, per cui in realtà fino a oggi si è andati avanti in base alla spesa storica.

Ma nella Lega di Zaia e Fontana, nel Pd di Bonaccini, di Gori e di Sala, non vogliono che questa legislatura finisca senza mettere un punto fermo sul diritto di ciascun territorio di tenersi le risorse che produce, ed ecco i vari progetti di autonomia differenziata che si susseguono, ognuno dei quali in realtà stabilisce che la distribuzione iniqua finora avuta diventi legittima.

Si continua a dire che non è così, che in realtà non vi è maggior trasferimento di risorse, ma che in realtà è un problema di efficienza (quella che peraltro abbiamo visto abbondantemente nella recente crisi sanitaria). Così vengono premiati coloro che spendono meglio, ma in realtà sono tutti paraventi che servono a nascondere il vero motivo della autonomia differenziata: quello che le Regioni più ricche si tengano il reddito che producono, mettendo in discussione l’articolo tre della magna Carta e statuendo “finalmente” che i Paesi sono due e che anche i diritti sono diversi a seconda di dove si nasca.

KO L’IDEA DI NAZIONE

Il fatto che tale approccio possa portare alla spaccatura del Paese poco interessa alla Lega Nord, ma poco interessa anche al Pd nordico. Veneti, lombardi, emiliano romagnoli, toscani si crogiolano nella certezza di essere migliori e di aver diritto a gestirsi le risorse che producono.

Il primo tentativo di chiudere la questione è stato fatto saltare dalla grande mobilitazione che c’è stata nel Mezzogiorno d’Italia da parte delle università e della intellighenzia, oltre che di una parte della classe politica.

Adesso si torna alla carica per capire se le elezioni che si avvicinano possono far adottare più miti consigli ai rappresentanti delle realtà meridionali in Parlamento, che potrebbero essere molto più “consigliati” ad essere accondiscendenti verso le direzioni dei partiti, per evitare di perdere quel posto in lista, già così complicato da tenere, piuttosto che la possibilità di elezione, che con la diminuzione del numero di rappresentanti diventa sempre più un terno al lotto.

Tanto, alla fine, i meridionali spesso si fanno passare sotto il naso qualunque tipo di scippo. Pensate a quello che è accaduto con i dipartimenti di eccellenza, posizionati quasi tutti al Nord.

Mentre, notizia recente, nella classifica della Stanford University, tra i migliori 20 ricercatori italiani figurano i rettori di Catania ( Francesco Priolo) e Messina (Salvatore Cuzzocrea), oltre che altri sette tutti di università meridionali. Anche questa, purtroppo, è una guerra di logoramento ma temo che quella che verrà sconfitta sarà l’idea di Nazione.


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