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Dal 2012 a 2021, cinque Regioni del Sud (Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e Abruzzo) hanno speso per la mobilità passiva, i cosiddetti “viaggi della speranza”, oltre 10,8 miliardi di euro: soldi che sono finiti nelle casse del Nord, principalmente Lombardia (6,1 miliardi) ed Emilia Romagna (3,3 miliardi), ma ci hanno guadagnato anche Toscana (1,3 miliardi) e Veneto (1,1 miliardi).

LA RISALITA DEL SUD

Così si è autoalimentato il perverso meccanismo che ha portato il sistema sanitario a spaccarsi in due tronconi, non garantendo al 40% della popolazione italiana gli stessi livelli di prestazioni. Soldi che, in sostanza, hanno finanziato gli ospedali lombardi, emiliani, veneti, toscani, andando a sommarsi alle risorse derivanti dall’iniquo riparto del fondo sanitario che premia, manco a dirlo, sempre il Nord.

Tutto questo nonostante negli ultimi dieci anni siano state le Regioni del Mezzogiorno a migliorare i loro conti e la qualità dell’assistenza: l’analisi impietosa è della Corte dei conti, che ha trasmesso al Parlamento la relazione sulla gestione finanziaria dei servizi sanitari regionali.

«I risultati delle Regioni in piano di rientro – si legge nel report – sembrano relativamente migliori e mostrano una riduzione da 2,1 a 0,7 miliardi di euro dei disavanzi dei servizi sanitari tra il 2012 e il 2020, con qualche segnale di peggioramento nel 2021, e indicherebbero un positivo sviluppo gestionale, già maturato con la spending review 2012-2019».

Le Regioni in piano di rientro sono quasi tutte del Sud, tranne il Lazio. Solamente nel 2020, le Regioni in piano di rientro hanno ridotto il disavanzo sul 2019 del 59% circa, quelle non sottoposte a piano di rientro del 34% e le Autonomie speciali (esclusa la Sicilia, inserita tra le Regioni in piano di rientro) del 19%. «Il risanamento finanziario – evidenziano i magistrati – inoltre, non sembra essere avvenuto a scapito dei Lea, migliorati costantemente almeno fino al 2019, tranne limitate eccezioni».

MOBILITÀ PASSIVA, UN BUSINESS PER IL NORD

In definitiva, nonostante il sottofinanziamento dei sistemi sanitari regionali del Mezzogiorno, nonostante una mobilità passiva che porta altri miliardi al Nord, il Sud ha ridotto il proprio deficit, riuscendo persino a migliorare la qualità dell’assistenza e delle cure. Passi in avanti importanti ma, ovviamente, con poche risorse finanziarie a disposizione restano «ancora significative le differenze geografiche nei servizi territoriali, come quelli per le cure palliative ai malati di tumore, il numero di anziani non autosufficienti in trattamento socio-sanitario e l’assistenza domiciliare integrata» si legge sempre nella relazione della Corte dei conti.

La mobilità passiva si è trasformata quindi in una sorta di business per il Nord, che ha potuto così alimentare ulteriormente le proprie casse. I pazienti si sono trasformati, indirettamente, in un “affare”. Una situazione che si è incancrenita per colpa anche del criterio della spesa storica applicato al riparto del Fondo sanitario nazionale.

I numeri, certificati sempre dalla Corte dei conti in un altro documento, parlano chiaro e sono a prova di smentita: dal 2012 al 2017, nella distribuzione del fondo, sei regioni del Nord hanno aumentato la propria quota, mediamente, del 2,36%; altrettante regioni del Sud, invece, già penalizzate perché erano beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno.

Significa che, nel periodo dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.

LA CRESCITA DEI DIVARI

Ecco come è lievitato il divario tra le due aree del Paese: «Le politiche di finanziamento dei sistemi sanitari – evidenzia la Corte dei conti – condizionano l’accessibilità alle cure, la qualità dei servizi e la stessa efficienza dell’organizzazione del sistema sanitario. Il tema del finanziamento del Servizio sanitario nazionale costituisce, dunque, momento fondamentale della problematica connessa alle esigenze di tutela della salute, in virtù dello stretto legame tra l’effettività di tale diritto, costituzionalmente garantito, e le risorse disponibili e investite per renderlo concreto e sostenibile».

Tutto questo ha un solo riflesso: la spesa pubblica sanitaria pro capite è sbilanciata in favore del Nord. Infatti, nel 2019, tutte le regioni del Mezzogiorno, a esclusione del Molise, hanno avuto una spesa pro capite inferiore alla media nazionale, pari a 1.961 euro. Fanalino di coda è la Campania con 1.820 euro, segue la Calabria con 1.868 euro, poi il Lazio (1.875), Sicilia (1.884), Puglia (1.888), Basilicata (1.902). Al contrario, quasi tutte le regioni del Nord hanno una spesa pro capite superiore alla media: Liguria 2.132 euro, Friuli Venezia Giulia 2.129, Valle d’Aosta 2.096 euro, Emilia Romagna 2.067 euro, Toscana 2.032 euro, Lombardia 2.000. Fa eccezione il Veneto con 1.941 euro, superiore alle regioni del Mezzogiorno ma lievemente inferiore alla media nazionale.

Nel biennio 2020-2021 la spesa sanitaria è risultata in aumento, soprattutto in virtù degli effetti pandemici. L’Italia, nel complesso, continua, tuttavia, a spendere meno dei partner europei, pur reggendo il confronto nell’efficienza. «Le maggiori risorse impiegate nella sanità – scrivono i magistrati – hanno interrotto il trend decennale di contenimento della spesa nel settore, con prospettive di ritorno ai livelli pre-pandemia, ma sono ancora ampi i divari tra le Regioni».


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