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“GLI UOMINI che appartennero alla Resistenza devono far di tutto per cercare che queste mura non diventino ancora più alte, che non diventino torri di fortilizi irte di ordigni di distruzione e ricercare i valichi sotterranei attraverso i quali, in nome della Resistenza combattuta in comune, si possa far passare ancora una voce, un sussurro, un richiamo. Quello che unisce, non quello che separa rifiutarsi sempre di considerare un uomo meno uomo, solo perché appartiene a un’altra razza o a un’altra religione o a un altro partito“.

Sono parole di Piero Calamandrei, uno dei Padri Costituenti che scrisse parole indimenticabili sul significato della Guerra di Liberazione e della Costituzione Repubblicana. Se ha letto questo brano, il presidente dell’ANPI Gianfranco Pagliarulo e tanti prima di lui, eletti pro tempore al vertice di quell’Ente Morale, se ne sono dimenticati, perché l’ANPI è divenuta una organizzazione settaria, custode e protagonista di una linea che, non ha mai cercato di fare dei valori della Resistenza e dello spirito della Costituzione un’occasione per unire il popolo, ma per continuare a discriminare – dopo tanti decenni – una parte di esso; a porsi come giudice implacabile di una sorta di peccato originale permanente.

Durante le manifestazioni del 25 Aprile si sono verificati spesso episodi – si vedano l’ostilità per la Brigata ebraica –  che tradivano lo spirito della giornata. Quando era sindaco di Milano Letizia Moratti dovette abbandonare il corteo del 25 Aprile insieme al padre invalido (e già deportato nei campi di concentramento in Germania) solo perché apparteneva ad un partito di centro-destra; qualche anno dopo un bravo sindacalista come Savino Pezzotta della Cisl (oggi, purtroppo, schierato con i piagnoni del pacifismo militante) non riuscì a svolgere il suo comizio (era stato designato come oratore ufficiale dall’ANPI), perché, in quel momento la sua organizzazione era in polemica con la Cgil.  Persino Matteo Renzi, folgorante in soglio, ebbe il suo daffare con l’ANPI in merito al referendum sulla riforma della Costituzione. Tanto che un consigliere regionale del Pd  in Emilia Romagna, commentò polemicamente: “Trovo singolare che l’Anpi si esprima su una questione simile; è come se un’associazione di  donatori di sangue  assumesse una posizione partitica”. 

Sono molti più i casi nei quali è consigliabile non partecipare piuttosto che confondersi con un popolo festante nel giorno della libertà. Perché non basta essere antifascisti, occorre anche essere di sinistra, la più estrema possibile, meglio se appartenente ai Centri sociali (anch’essi divenuti “cacciatori di fascisti”). Quest’anno l’ANPI, grazie al suo presidente (il quale peraltro è nato nel 1949, quando la guerra era finita), ha dato corso a una deriva di discussioni inopportune. Clamorosa è stata la presa di distanza dalla lotta in cui è impegnato il popolo ucraino, alla quale non sono state riconosciute le stimmate di una vera Resistenza. Ed è veramente singolare questo distinguo, dal momento che Pagliarulo è stato costretto – dai dati di fatto – ad ammettere che l’aggressore è Putin e a smentire una litania di dichiarazioni, dal 2014 a tempi più recenti, in cui erano in bella vista tutte le infamità che hanno accompagnato la propaganda russa: il Maiden è un colpo di Stato; il governo ucraino è in mano ai nazisti; nel Donbass è in corso un genocidio dei cittadini russofani (peccato che neppure un putiniano di ferro come Kirill si sia mai avventurato ad andare oltre l’accusa al governo di Kiev di organizzare in quelle terre virtuose scandalosi gay pride di rito decadente occidentale.

In verità, divagando sulla guerra in Ucraina, l’ANPI viola il suo Statuto che all’articolo 2 sancisce degli indirizzi molto netti. Alla lettera e) è scritto: “mantenere vincoli di fratellanza tra partigiani italiani e partigiani di altri paesi; mentre alla lettera m) si parla persino di “dare aiuto e appoggio a tutti coloro che si battono, singolarmente o in associazioni, per quei valori di libertà e di democrazia che sono stati fondamento della guerra partigiana e in essa hanno trovato la loro più alta espressione”.

Nata a Roma nel 1944, mentre nel Nord Italia la guerra era ancora in corso, è stata eretta in ente morale il 5 aprile 1945 con l’obiettivo di “riunire in associazione tutti coloro che hanno partecipato con azione personale diretta, alla guerra partigiana contro il nazifascismo, per la liberazione d’Italia, e tutti coloro che, lottando contro i nazifascisti, hanno contribuito a ridare al nostro Paese la libertà e a favorire un regime di democrazia, al fine di impedire il ritorno di qualsiasi forma di tirannia e di assolutismo”.

Se per tante ragioni, soprattutto demografiche, non si è stati mai partigiani o lo si è stati, ma poi si è passati a miglior vita, grazie all’ANPI partigiani si può diventare. Ora per allora.  Basta chiederlo: “Possono altresì essere ammessi come soci con diritto al voto, qualora ne facciano domanda scritta, coloro che, condividendo il patrimonio ideale, i valori e le finalità dell’A.N.P.I., intendono contribuire, in qualità di antifascisti, ai sensi dell’art. 2, lettera b) (ossia: valorizzare in campo nazionale ed internazionale il contributo effettivo portato alla causa della libertà dall’azione dei partigiani e degli antifascisti, glorificare i Caduti e perpetuarne la memoria, ndr),  con il proprio impegno concreto alla realizzazione e alla continuità nel tempo degli scopi associativi, con il fine di conservare, tutelare e diffondere la conoscenza delle vicende e dei valori che la Resistenza, con la lotta e con l’impegno civile e democratico, ha consegnato alle nuove generazioni, come elemento fondante della Repubblica, della Costituzione e della Unione Europea e come patrimonio essenziale della memoria del Paese”.

È proprio necessario iscriversi all’ANPI per comportarsi da cittadini di una Repubblica democratica fondata sul lavoro?


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