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La famiglia di Willy riceve dalla Federazione Pugilistica Italiana la cintura “Campione di Vita”

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Nell’Italia del 2020, già così rudemente colpita dalle emergenze geologiche e sanitarie, si susseguono senza sosta anche quelle sociali. La storia di Willy Monteiro Duarte, il ventunenne ucciso di botte da un branco a Colleferro, continua a risuonare da giorni sulle pagine dei quotidiani e nelle coscienze di tutti. Tra chi si espone chiedendo l’ergastolo per gli aggressori, chi invoca il cambio di capo di imputazione da omicidio preterintenzionale a omicidio volontario e chi cerca di ricostruire la vicenda per intero, fioccano gli omaggi a Willy, sempre più spesso definito “piccolo, grande eroe”.

Dai murales alle manifestazioni fino agli omaggi della Roma, la sua squadra del cuore, passando per la consegna della cintura “Campione di Vita” alla sua famiglia, da parte della Federazione Pugilistica Italiana, nessuno si è tirato indietro nel mostrare la propria presenza accanto ai familiari del ragazzo. Tante le attività e le iniziative attivate in onore di Willy, promosse affinché la sua storia non venga dimenticata. Eppure, nella foga di mostrare partecipazione, l’unica cosa di cui ci si dimentica troppo facilmente è il fatto che dietro a una tragedia del genere non vi siano solo il ritorno mediatico, l’eco delle registrazioni, dei video, delle testimonianze e delle condanne, ma anche e soprattutto un nucleo familiare distrutto da un giorno all’altro, privato di quell’unità fondamentale che ne garantiva l’integrità e che, a fronte di tutti gli omaggi resi, non riavrà mai più indietro un figlio di soli ventun anni.

Nelle vetrine mediatiche in cui viene macinato di tutto, dal video goliardico che resta in cima alle news per settimane ai passi salienti dei fatti di cronaca, il filtro della decenza e dell’empatia si disperde come fosse fatto di materia inconsistente. Viene macinato via, nel tempo, anche il reale significato delle parole. “Compassione”, dal latino “cum patior”, non è lo sguardo pietoso rivolto a chi sta peggio di noi che, in fondo, ci fa pensare: “per fortuna non sono al suo posto”. “Cum patior” è soffrire insieme all’altro, desiderando ardentemente di alleviare quel dolore.

Se fossimo davvero compassionevoli, per ciò che il significato etimologico della parola stessa impone, ora staremmo soffrendo così tanto insieme alla famiglia di Willy che saremmo i primi a desiderare, sopra ogni cosa, di lasciar scorrere quel dolore col rispetto ed il tempo che si deve a una ferita così lacerante, così lacerata. Ci hanno insegnato la scontatezza della guarigione, ci siamo imposti una bieca “cultura del cerotto” costruita al fine di accelerare la ripresa delle nostre vite senza renderci conto che un cerotto, in realtà, le ferite le nasconde alla vista e basta, senza davvero guarirle.

Siamo figli del pensiero che la cicatrice sia sinonimo di guarigione, e non piuttosto la traccia indelebile di un dolore. Nel circolo vizioso delle notizie e degli aggiornamenti, diventa più semplice che mai confondere i due orientamenti. Sgomitare con doni al seguito, come dei Re Magi fin troppo puntuali, non fa che rallentare il processo di accettazione del dolore da parte dei familiari di Willy. La mancata tregua dal bagno di folla di queste settimane rischia di metterli al centro di un teatrino buonista che nessun vero aiuto rende loro in termini di sostegno morale: una volta chiuso il portone di casa dietro le continue manifestazioni di vicinanza, ai genitori di Willy non restano che le macerie con cui fare i conti tutti i giorni.

In momenti come questi, forse, più che “fare” è fondamentale astenersi dal fare, perché il troppo stroppia soprattutto quando di mezzo c’è una vita spezzata. Aspettare che il dolore altrui fluisca è un po’ come lasciare che una bottiglia d’acqua si svuoti del tutto prima di ricominciare a riempirla. È comprendere che, oltre l’orlo, nulla può essere trattenuto all’interno. E, forse, anziché dar vita a un campo minato di buone azioni, in cui si rischia di far saltare per aria manifestazioni, fiaccolate e bei gesti ad ogni passo con la conseguenza che, un giorno, intorno a Willy tutto si spenga con la rapidità di un interruttore, sarebbe lecito diluire il bene. Imparare a denunciare il branco quando esso inizia a comporsi, impedire spadroneggiamenti, fare gruppo contro le prepotenze, contaminare la malacultura vigente con quella positiva e propositiva: sarebbe un dono che la famiglia di Willy senz’altro apprezzerebbe, per onorare la memoria di quel figlio terribilmente perduto. Un dono silenzioso, come quella famosa foresta di alberi citata da Lao Tzu che crescendo non fa rumore, eppure sprigiona ossigeno: dobbiamo ambire all’aria pura, a un ambiente salubre in cui i doni post mortem non servano.

Non che la crudeltà umana possa essere debellata dal mondo, s’intende; sarebbe una pretesa utopica. Ma tamponare il dolore degli altri e fermare la diga impetuosa di chi il dolore lo provoca, sono due arti dello stesso corpo, due funzioni imprescindibili l’una dall’altra, due responsabilità da assumere al più presto, perché chi ha perduto tutto possa sentire un abbraccio anche senza esser stretto, possa percepire una vicinanza anche senza il fiato sul collo.


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