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Particolare di un'effige in miniatura per un'edizione antidiluviana della Bibbia

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MANGIARE è una delle cose più naturali che facciamo. Mangiamo per ragioni biologiche, perché dagli alimenti traiamo nutrimento indispensabile alla nostra vita. Ma mangiamo anche per altre ragioni, tante, diverse fra loro: quella che ci accomuna tutti è probabilmente l’uso dell’atto di alimentarsi all’interno del nostro intessere relazioni sociali. Lo facciamo tutti, è una caratteristica della specie umana ma anche molte specie animali usano il pasto come elemento di socialità e definizione dei rapporti. Mangiamo anche da soli, certo, ma mangiare in compagnia assume un significato tutto diverso: lo sanno bene, per esempio, coloro i quali a causa di limitazioni dovute per esempio a intolleranze gravi, consumano gran parte dei propri pasti in ambienti sicuri, magari rinunciando a uscire con amici e conoscenti.

Per loro, la percezione del danno percepito dalla propria intolleranza si trasforma in un vero e proprio danno sociale della malattia, che li colpisce limitando la naturale propensione a costruire capitale relazionale, quella sorta di propulsore virtuale del nostro essere donne e uomini sociali: in letteratura, il danno relazionale percepito si chiama Sonetness, ed è un altro tassello dei disturbi legati ad una condizione di non perfetta salute fisica. Mangiare da soli, inoltre, può addirittura dare l’impressione che i gusti che conosciamo cambino: le cose possono apparire diverse al nostro palato a seconda della situazione in cui consumiamo i nostri alimenti. Com’è possibile? Forse dipende anche dal fatto che la percezione non rappresenta una manifestazione oggettiva delle cose, quanto piuttosto una loro interpretazione. Le percezioni sensoriali si intrecciano indissolubilmente con i significati, e così facendo tracciano in maniera più definita i confini sfumati dei nostri ambienti quotidiani, e persino del sapore dei nostri alimenti. Anche perché se è vero che tutti i nostri sensi sono coinvolti in differenti situazioni di vita quotidiana, è altrettanto vero che nel cibo la percezione ne mette in allerta molti: dall’olfatto al tatto, passando per la vista e il gusto, passando anche per il calore. La valutazione di un alimento è insomma un fatto sensoriale totale, una fusione di esperienze che genera, infine, il sapore.

Ma che rapporto abbiamo con il sapore? Che significato ha – se ne ha uno – il “buon sapore” rispetto al “cattivo sapore”, che ruolo sociale possono avere, in definitiva, il gusto e il suo opposto, il disgusto?

Una proposta interessante su questo versante è quella fornita dal sociologo, antropologo e filosofo francese Pierre Bourdieu, che di fatto continua quel percorso di pensiero inaugurato a cavallo tra ‘800 e ‘900 da Durkheim e Mauss: l’obiettivo è quello di ricondurre a variabili sociologiche le categorie kantiane. Il che significa, in sostanza, che al pari delle nostre percezioni dello spazio, del tempo o della autonomia della persona, sono socialmente condizionati anche i nostri giudizi su ciò che è bello o brutto, raffinato o volgare, interessante o banale. Di più: nella sua analisi, tali giudizi sono la materia prima con la quale i gruppi sociali rappresentano e plasmano la loro differenziazione.

Ma il lavoro di ricerca di Boudieu si spinge oltre, è addirittura più complesso: svolge una meticolosa indagine nella Francia degli anni ’60, annotando stili di alimentazione molto diversi tra diverse classi sociali. Gli industriali e i commercianti, per esempio, utilizzano per l’alimentazione una quota percentuale più alta del loro reddito, e privilegiano la quantità e i cibi pesanti e ricchi, sia in senso calorico che economico: in questo – soprattutto sulle quantità – sono simili, con le dovute differenze dovute alla minore capacità economica, agli operai. Il ceto medio ad alto capitale culturale, invece, come ad esempio professionisti e professori, si definisce in contrapposizione strutturale a questo tipo di gusto: come ricorda lo stesso Bourdieu “costituisce in termini negativi il gusto popolare come gusto per le cose pesanti, grasse, grossolane, e si indirizza verso le cose leggere, fini, raffinate”.

Più in dettaglio, la ricerca mostra che le persone più ricche di capitale culturale che economico (e quindi professori ma anche studenti universitari), “si contrappongono in modo quasi consapevole, con una ricerca dell’originalità al minor costo economico, che rende inclini all’esotismo e al populismo gastronomico (piatti contadini), ai ricchi ed ai loro cibi ricchi, propinatori e consumatori di grandi mangiate, corpulenti e grossolani”. Il contributo di Bourdieu è insomma più ampio di quello dei suoi predecessori, e lo portano ad ipotizzare che le preferenze e i gusti non siano scelte consapevolmente mirate a produrre status: sono invece profondamente incorporate nei soggetti sociali, fino a diventare quasi una seconda natura.

Come avviene questo processo di assimilazione? Avviene attraverso un meccanismo culturale definito habitus. Una sorta di imprinting sociale, con schemi che funzionano prima di giungere alla coscienza e all’ordine del discorso e che nascondono, sotto gesti automatici o aspetti apparentemente insignificanti – le abilità pratiche, il modo di incedere, di sedersi, di soffiarsi il naso, la maniera di tenere la bocca quando si mangia o si parla – “quelli che solo impropriamente potremmo chiamare dei valori, mettendo all’opera i principi più di fondo di costruzione e di valutazione del mondo sociale, quelli cioè che esprimono in modo più diretto la divisione del lavoro”.

In definitiva, l’habitus è fatto da schemi incorporati, che si costituiscono nel corso della storia collettiva, per essere poi acquisiti nel corso della storia individuale. Una sedimentazione del collettivo nell’individuale. Non è quindi scelto dal soggetto ma costituisce il soggetto stesso, e per questo è difficile se non impossibile cambiarlo volontariamente. Le scelte di gusto, insomma, non sono mai meramente strumentali, perché il gusto in qualche modo è un prodotto della storia, del modo in cui ciascuno si colloca nella trama simbolica della propria cultura. Non si sceglie di consumare un bene per imitare chi sta più in alto nella gerarchia sociale quanto, piuttosto, per aderire a un sistema di valori che demarca negativamente ciò che sta più in basso; in questo modo si costruisce la distanza da quelli considerati ceti inferiori, come fossero portatori, chissà perché, di cattivo gusto.

Così, la separazione tra i diversi gusti non è una semplice divisione del mondo, ma costituisce un’operazione con cui certe pratiche e certi beni vengono differenziati e distinti o a cui viene dato più valore di altri. Affinché si producano gusti, devono esistere beni e pratiche considerati di buono o cattivo gusto, distinti o volgari. Questi beni e pratiche classificati e gerarchizzati hanno, allo stesso tempo, la funzione di classificare e gerarchizzare gli individui all’interno di una scala che va dagli uomini di buon gusto a quelli di cattivo gusto. Così, nella realtà simbolica e materiale, la differenza, quando viene chiamata “cattivo gusto”, diventa disuguaglianza sociale.

Le persone, insomma, hanno inclinazioni e scelgono pratiche e beni non consapevolmente, ma in armonia con i canoni del legittimo, cioè in accordo con il loro habitus e per il loro habitus. In questo senso, il gusto stigmatizza e stabilisce differenze sociali, cioè è uno strumento che, quando agisce dall’ “esterno” dell’individuo, gli attribuisce un’identità, e quando agisce dall’ “interno” dell’individuo, produce meccanismi di autoidentificazione sociale. Così inteso, il gusto tende a diventare una guida alle posizioni sociali che rafforzano i rapporti di dominio e, in questo senso, esercita la funzione di un vero e proprio strumento di potere.


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