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LA SOCIALITÀ PRIMA DELLE CHAT/ IL LAVATOIO MOMENTO DI COMPLICITÀ FEMMINILE QUANDO A CASA, IN CHIESA E IN PIAZZA NON SI POTEVA PARLARE


Con le mani nell’acqua e la schiena rotta dalla fatica. Tante teste, una accanto all’altra, piene di parole, parole, parole. Liberatorie, segrete, intime, consolatorie. A cuor leggero, senza guardarsi, con gli occhi posati sulle mani nervose che vanno su e giù. Un rito che sa di antico, faticoso, ancestrale, che diventa appagante quando tutto si compie e lascia spazio alla leggerezza.

Questa è una storia che ha il profumo del bucato asciugato al sole. Un profumo che copre secoli di sofferenze e solitudini. Protagoniste le donne: le lavandaie. Loro che con i panni sporchi degli altri hanno scritto un capitolo a sé nel grande affresco dei luoghi della socialità prima delle chat, prima della comunicazione continua, prima dello scambio delle foto, dei video, dei cuoricini e delle faccine. Questi luoghi lontani nel tempo e nella memoria sono i lavatoi. Sudore, lacrime, risate. Segreti freschi di bucato. Teste chine, ginocchia rotte. Mani nodose rese ruvide dall’acqua fredda e tanta voglia di chiacchiere tra donne. Non quelle nei salotti aristocratici e mondani, al banco di un bar o a un tavolaccio d’osteria, non quelle bisbigliate tra sconosciuti nello scompartimento di un treno che squarcia la notte; non quelle leggere e maliziose fatte davanti allo specchio in un salone da parrucchiera, ma in un lavatoio. Prima ancora, sulla riva dei fiumi e fiumare o sui bateaux-lavoirs, le navi-lavatoio della Parigi dell’Ottocento.

Nei corsi d’acqua, le lavandaie si specchiavano come Narcisi con le ciocche dei capelli scarmigliati che sfuggivano dalle crocchie. Le gonne alzate alla meno peggio, così che non fossero zavorre bagnate. È bastato infilare l’orlo nella cintura della gonna lunga, perché qualcuno le raccontasse come ispiratrici dei costumi indossati dalle ballerine di can can. La musica, però, non poteva essere quella.
Gli strambotti e gli stornelli delle lavanderine scacciavano tristezze e umiliazioni. Si cantava per esorcizzare la vita toccata in sorte. La tristezza e l’infelicità. Le regine dei cenci chiuse nelle loro umili case quando padri, fratelli e mariti vietano di varcare l’uscio, o in libera uscita quando era loro concesso, insieme ai panni lavano i dispiaceri. Libere dalle pesanti ceste della biancheria, libere di parlare tra loro anche di tutto quello che altrove – in casa, in chiesa, in piazza – era considerato una vergogna.

Le chiacchiere delle lavandaie che tanto spregio indicano nell’accezione in cui le intendiamo, avevano guance colorate dal rosso del pudore. Ma, vinta la timidezza, le parole condivise diventavano proprietà privata. Erano le loro e di nessun altro. Dialoghi di vita vissuta, confessioni, pettegolezzi da non svelare. Una complicità liberatoria. Baruffe e gelosie, piccole gioie o dolori da spartire.

Le cattiverie non sono nate con le chat, all’angelo del focolaio non erano concesse, ma al lavatoio si poteva essere spregiudicate, cattive, esplicite, malevoli. Anche l’invidia poteva essere esibita in un rito liberatorio e condivisa con altre invidie, altre gelosie e altre frustrazioni. Un momento di orgoglio femminile in una società che non dava strumenti di affermazione alle donne, che non rispettava i loro diritti, che opprimeva desideri e passioni fino a imporre il delitto d’onore per chi cedeva alle debolezze. Si potevano tramandare anche leggende come quella del fazzoletto a doppia punta, legato sul capo: la rivendicazione di uno spicchio di terra, promesso da un signorotto nel XIII secolo e mai concesso.

Al fiume o al lavatoio le parole erano libertà. L’età non contava. La povertà spazzava via l’anagrafe e lasciava a casa i maschi pronti a dar di matto al solo sospetto di tresche amorose. Le lavandaie erano madri che insieme alle ceste si portano dietro i bambini. Erano ragazze che ancora in età da marito, si davano appuntamenti segreti al lavatoio. In quel piccolo mondo poteva accadere di essere sorprese dagli sguardi di desiderio di uomini sconosciuti, fuori posto, ma incuriositi. Lavoratrici che non sapevano né leggere né scrivere e usavano nastrini colorati per dare un’appartenenza ai sacchi di iuta con gli indumenti sporchi dei vari committenti.
Acqua e pietre. Cenere, soda, sapone di Marsiglia e intrugli strani per sbiancare. Foglie di alloro, rosmarino e lavanda per profumare la biancheria. Cuore e sogni per esistere e resistere.
In questi luoghi di socialità femminile sono nate e si sono diffuse e affermate le prime rivendicazioni dei diritti delle donne. Gli antichi lavatoi dovrebbero essere conosciuti, tutelati e apprezzati come siti storici, secondo le direttive emanate anche dall’Unione Europea. Anche per quella che è stata la loro funzione sociale.

Pure l’origine letteraria dell’attività di lavatura ha una storia antica. Se ne trova traccia nell’Odissea: “E quando giunsero alla corrente del fiume, bellissima, / dov’erano i lavatoi perenni, molt’acqua/ bella sgorgava, da lavare anche vesti assai sporche […] Lavate che l’ebbero, portato via tutto il sudicio,/ in fila le stesero lungo la riva del mare, là dove più/ la ghiaia sul lido il mare lavava”.
Da Manzoni con la famosa metafora della“sciacquatura dei panni in Arno” ai versi di Pascoli nella raccolta Myricae : “e cadenzato dalla gora viene/ lo sciabordare delle lavandare/ con tonfi spessi e lunghe cantilene”.
Continuando col detto “i panni sporchi si lavano in famiglia”, fino al proverbio “la cativa lavandera a treuva mai la bon-a péra”. Traduzione dal piemontese de “la cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra”, citata ne La donna della domenica di Fruttero & Lucentini.

Tanto generosa da lavare i fazzoletti per i poveretti della città è “La bella lavanderina”, protagonista di una canzoncina per bambini entrata nelle orecchie dell’infanzia fin dal tempo delle filastrocche prima del bacio del buonanotte.
Il ritmo dei canti popolari accompagna il chiacchiericcio delle lavandaie protese in avanti, verso l’acqua del fiume o piegate sui lavatoi di pietra.
Insaponare, sciacquare, sbattere e strizzare i panni. Soggetti prediletti anche dei pittori.
Il nastro della memoria sulla tavolozza del tempo si colora con le opere di Gabriel Metsu, di Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto, di William-Adolphe Bouguereau, di Paul Gauguin, di Eugene de Blaas, di Arnaldo Ferraguti, di Renato Guttuso.

Una narrazione che insieme alle protagoniste scavalla i secoli. I lavatoi iniziano a comparire in Italia intorno al 1500, per poi diffondersi in modo significativo soltanto nell’Ottocento, di pari passo all’attenzione sempre maggiore verso l’igiene e la pulizia. Dalla grandi città ai centri molto piccoli, gli abitanti rivendicavano a gran voce con petizioni scritte e lettere, la costruzione di lavatoi comunali. Il periodo di maggior sviluppo di questi edifici pubblici si colloca fra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX secolo: ogni piccolo centro abitato ne ha uno. Nella frazioni montane l’uso del “lavatoio di paese” si spinge fino agli anni ’70, fin quando l’acqua corrente nelle case arrivò in modo più capillare.

Dalla metà del Novecento, col picco del “boom economico” degli anni Sessanta, le chiacchiere condivise delle lavandaie iniziano a affievolirsi. L’antico mestiere comincia a scomparire. I lavatoi a subire un lento ma inevitabile abbandono. La rivoluzione è vicina e ha un nome: la lavatrice. I panni sporchi restano a casa e le chiacchiere delle lavanderine si trasformano nel soliloquio delle casalinghe con la centrifuga. Davanti a quel cestello, le parole del bucato condiviso cessano via via di esistere. Dai discorsi delle lavandaie alle chat e alla socialità vissuta sulle piattaforma on-line, passa anche la strada della parità.
I tempi moderni saranno pure quelli degli incontri virtuali e dei panni privati lavati nella tinozza delle rete, ma la lavatrice oggi la sanno mettere, o almeno ci provano anche gli uomini.
E le lavanderine?
Loro rivivono nei quadri, nelle fotografie in bianco e nero, nei racconti delle nonne, nella memoria di quei luoghi storici diventati monumenti.
Silenziosi testimoni di un passato non fatto solo di chiacchiere stese al sole ad asciugare.


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