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Un'opera di Angelo Filomeno

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È UNA Biennale lontana, forse quella del 2007, nella quale vidi, per la prima volta, in un contesto tendenzialmente degradato, le opere splendenti e luminose di Angelo Filomeno. La Biennale era curata da Robert Storr, uno dei nomi esotici invocati dal Presidente Baratta per perseverare nell’equivoco sotto l’ambiziosa sigla: “Pensa con i sensi – senti con la mente. L’arte al presente”.

Il critico americano aveva sicuramente visitato Filomeno nel suo studio a New York. Probabilmente la scelta fu favorita dalla particolare condizione del critico di essere stato e di essere artista, e dallo specifico carattere dell’esperienza creativa di Filomeno, lontana dalla pittura in senso stretto. Storr scrive: “Ho iniziato come pittore più di 35 anni fa e non ho mai smesso. Non sono mai diventato un ex pittore. […] So certamente quanto sia difficile fare arte. […] Fare arte mi ha reso un curatore migliore. Resta da vedere se essere un curatore mi ha reso un artista migliore o meno.”

Entrato nello studio di Filomeno avrà visto ordine e disciplina, come si conviene al mestiere di un grande artigiano che ha sviluppato la tecnica del ricamo come nessuno nel nostro tempo, ricollegandosi a una tradizione che nel Novecentk aveva visto operosi Fortunato Depero, Vittorio Zecchin e il grande e dimenticato artista bolognese Francesco Dal Pozzo. L’impegno manuale impone una concentrazione propria del mondo orientale che intende il lavoro come meditazione.

Fui molto colpito dalle opere di Filomeno e gli parlai, nel corso degli anni, proponendogli una mostra che soltanto ora si è realizzata al Mart di Rovereto, nel progetto di documentare non solo ciò che fa rumore ma anche la lenta e laboriosa impresa di chi intende come fine dell’arte la meraviglia. La ricerca di Filomeno si alimenta di contraddizioni : la tecnica, i materiali e i richiami culturali nelle sue opere sono al servizio del soggetto. Lino, seta, onice e cristalli appaiono in lussuoso contrasto, come in Damien Hirst, con l’iconografia macabra in cui ricorrono teschi, scheletri, insetti e parti nascoste del corpo umano. Questi contrasti nelle opere di Filomeno stabiliscono un contrasto tra il timore della catastrofe e la ricerca del piacere.

Secondo Giovanni Bonelli che lo segue in Italia scrive: “Le sue opere, ricamate personalmente, sono metafore di situazioni o ricordi personali e parlano di solitudini, superstizioni, di morte e di paure, attraverso un’iconografia dai rimandi a volte macabri che viene però trasposta in un regno di eleganza e raffinatezza grazie alla incredibile bellezza dei ricami. I suoi referenti sono nell’arte del Nord-Europa (Grunewald, Durer e Bosch) ma anche nelle mitologie giapponesi e nelle maschere tribali africane” Filomeno ha appreso la tecnica del ricamo dalla madre sarta. Si ispira alla pittura classica, di grottesche, talvolta mostruose per creare, con la tradizionale lavorazione del ricamo pannelli che incorporano materiali di lusso come la seta shantung, i cristalli, i fili d’oro. Negli ultimi anni, l’abilità tecnica ed estetica dell’artista nel fondere pittura, ricamo e artigianato ha introdotto un uso esteso di colori e materiali tra cui mussola e denim, nonché una varietà di personaggi che non sono mai stati incorporati in ciascuna tela fatta a mano.

Sulle tele inoltre cuce anche alcune sete raffinate e pezzi di lino grezzo che riflettono la luce in modo differente. Dall’unione delle sete, del lino e dagli intrecci ricamati nascono delle narrazioni. Le strisce orizzontali di tessuto tendono all’astrazione ma fanno anche da contesto alle figure macabre al loro interno. In alcune opere Filomeno applica, sempre attraverso il ricamo, alcuni cristallo Swaroski. I suoi riferimenti figurativi sono principalmente nel Nord Europa, in Bosch e Durer, ma anche nelle mitologie giapponesi e nelle maschere tribali africane. Sente particolarmente vicino Durer per l’affinità tra l’incisione e il ricamo. Per creare le sue tele l’artista utilizza sempre una macchina per cucire Singer a zig zag. La sua arte trasmette “lusso, calma e voluttà”.


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