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Da sinistra: l’opera di Canaletto e il dipinto espostogli a fianco

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Confondere capolavori dei musei pubblici con opere sul mercato, se non siano eccelse e inevitabili, determina comprensibili sospetti

Voglio dire al direttore delle Gallerie della Accademia di Venezia, Giulio Manieri Elia, che mi compiaccio della, pur tardiva, partecipazione delle Gallerie dell’Accademia, e quindi dello Stato, alla importante mostra su Carpaccio a Palazzo Ducale, in collaborazione con la National Gallery di Washington. L’assenza dei teleri con le storie di Sant’Orsola, a necessaria integrazione dell’esposizione madre, appariva inspiegabile e perfino polemica.

Ora, anche grazie alla sua sensibilità, questa lacuna è riparata. E’ bastato il “Sogno di Sant’Orsola” a consolare i visitatori della temporanea assenza delle altre sue storie. La imponente presenza di dipinti italiani del Museo di Capodimonte al Louvre indica la strada da seguire, in dialogo con le principali istituzioni museali internazionali per maggior gloria delle nostre e della cultura italiana. E qui la mia preoccupazione, che non posso tacere, anche per le numerose segnalazioni che ho avuto.

Per converso, quindi, va evitato, in ogni modo, il coinvolgimento del buon nome delle Gallerie dell’Accademia per iniziative marginali e in sedi, pur rispettabili, ma che non garantiscono il rigore, la serietà e il sufficiente distacco dal mercato, come, ai Musei Civici degli Eremitani di Padova, la mostra “All’ombra di Canaletto. Paesaggi e capricciosi invenzioni del ‘700 veneziano”.

La pubblica denuncia, della quale non ho ragione di dubitare, di Anna Bozena Kowalczyk, la principale studiosa internazionale di Canaletto, di Bellotto e dei vedutisti veneziani (non un sussurro o un pettegolezzo), parla da sola, indicando la presenza di 42 dipinti da collezioni private, di vacillante attribuzione e con opere incompatibili, non solo con gli autori ma perfino con il secolo di cui si tratta.

Nella sostanza, non c’è ombra dell’ombra di Canaletto. Ed è un equivoco di cui non è difficile intendere le ragioni. Confondere capolavori dei musei pubblici con opere sul mercato, se non siano eccelse e inevitabili, determina comprensibili sospetti e anche l’inganno del visitatore della mostra, tanto che, con sconcerto, la studiosa indignata conclude: “Canaletto è lì, con il suo glorioso Capriccio architettonico, saggio della sua sofferta ammissione alla Accademia delle Belle Arti dell’11 settembre 1763.

Questo prestito generoso delle Gallerie dell’Accademia di Venezia è invece difficilmente spiegabile nell’ambito di questa mostra… Non è certamente eseguito all’ombra di Canaletto il dipinto espostogli a fianco che, con Canaletto, condivide soltanto il formato verticale, e la presenza di un colonnato, ma in rovina; quest’opera, la cui materia smaltata richiama la seconda metà dell’800, forse francese, è qui data, senza ritegno, a Francesco Guardi”.

Senza ritegno. Basterebbe questa osservazione a indicare la squalificante condizione imposta a un dipinto di un grande museo nazionale, che ne è temporaneamente privo (e molto più visitato dei musei di Padova), senza vantaggio per la conoscenza o per gli studi. E aggiungo si tratta dell’unico dipinto di Canaletto presente all’Accademia, e che del suo prestito non sono stato informato, né nel mio ruolo istituzionale né come membro del comitato scientifico che esamina, anche con la suggestione della sua occulta prudenza, la opportunità e la legittimità costituzionale dei prestiti.

Non è da escludere che allo stupore e alla reazione della Kowalczyk contribuisca anche il diniego, poi corretto dal Ministero, del prestito di un dipinto di Bellotto per una mostra significativa del pittore al Castello di Varsavia. Così come ho chiesto di dare un segnale positivo con la partecipazione delle Gallerie dell’Accademia alla mostra di Carpaccio, chiedo ora, anche se può apparire imbarazzante, di ritirare dalla mostra padovana il “Capriccio” di Canaletto.

Capisco che è un gesto forte, ma certamente riparatore per la credibilità dell’istituto che Manieri Elia dirige, e che anche io ho diretto, ed è un segnale di attenzione per il dibattito, talvolta anche difficile, che una mostra suscita. Il mio suggerimento confina con una determinazione che ritengo inevitabile e che certamente contribuirà a rinsaldare la considerazione che ho sempre avuto per il suo impegno e per il suo rispetto del museo, certo che comprenderà, con il sottosegretario, lo studioso e l’amico, incredulo davanti a una cosi’ grave falsificazione (anche materiale) della verità che le opere d’arte (autentiche) testimoniano.

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