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MArcel Proust

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Questo non è il ritratto di uno scrittore. E allora cos’è? Questo è il ritratto dello scrittore. La critica letteraria di tutto il mondo si spende da almeno un secolo su Marcel Proust – morto nel novembre di cento anni fa, era il 1922, all’età di 51 anni – dando di volta in volta preminenza ad aspetti diversi dei suoi scritti. Volendo citare alcuni nomi, esclusivamente italiani, di coloro che hanno ragionato su Proust e sulla sua opera, si possono nominare: Giuseppe Ungaretti, Ugo Ojetti, Benedetto Croce, Carlo Bo, Mario Praz, Giulio Carlo Argan, Gianfranco Contini, Alberto Arbasino, Franco Fortini, Alberto Moravia, Pietro Citati.

Proust è come Omero, Eschilo, Platone, Dante, Shakespeare, Cervantes, Joyce. E nessun’altro. Non ha scritto un’opera: ha scritto l’opera. Come l’Odissea, come la Divina Commedia o il Don Chisciotte della Mancia. Alla ricerca del tempo perduto – il romanzo suddiviso in sette volumi; elaborato tra il 1909 e il 1922; pubblicato nell’arco di 14 anni, tra il 1913 e il 1927; i cui ultimi tre volumi sono usciti postumi a cura del fratello dello scrittore; per un totale di 9 milioni e 609 mila caratteri contenuti in 3724 pagine (pagina più pagina meno, a seconda delle edizioni) – è un manuale su come affrontare la vita, in grado di guidare il lettore verso il raggiungimento della saggezza.

A voler mettere subito tutte le carte sul tavolo, è il caso di riferire fin da qui che l’opera di Proust è spesso tacciata di essere particolarmente ostica, complessa, prolissa, ai limiti del metafisico. In una parola: indecifrabile. E in effetti, è anche questo. È il racconto più intimo che sia mai stato scritto. È lo specchio di un’anima. È un percorso ascetico. Un’opera redentrice, per chi l’ha scritta e magari per chi la legge. È il frutto di una cultura omnicomprensiva, in cui filosofia, poesia e religione arrivano a coincidere.

Proust ha saputo dare forma organica ai frammenti dell’esperienza pubblica e privata: citando Contini, l’io proustiano è sia “il soggetto di una limitata, definita esperienza storica irripetibile” (quella di Proust stesso), sia “il soggetto trascendentale di qualsiasi avventura vitale e conoscitiva” (la nostra).

Céleste Albaret – governante dello scrittore e autrice di proprie memorie su di lui – gli attribuì le seguenti parole: “Voglio che, nella letteratura, la mia opera rappresenti una cattedrale. Ecco perché non è mai completa. Anche se già innalzata, occorre sempre ornarla d’una cosa o l’altra, una vetrata, un capitello, una piccola cappella che si apre, con la sua piccola statua in un angolo”. In effetti, il racconto di un’anima non può mai dirsi concluso. Va avanti, per ardite circonvoluzioni, finché essa è in grado di parlare.

Proust nacque nel luglio del 1871 ad Auteuil, un sobborgo parigino che oggi fa parte del XVI arrondissement. Il padre Adrien era un famoso medico e professore universitario, la madre Jeanne discendeva dalla ricca famiglia ebrea dei Weil. Frequentò il liceo, dove iniziò a nutrire la sua vocazione di scrittore collaborando a un periodico studentesco. Dopo il diploma e nonostante la cattiva salute – soffriva di violenti attacchi d’asma sin dai nove anni – prestò servizio come volontario in un reggimento di fanteria dell’esercito francese di stanza a Orléans. Studiò politica e diritto all’università, ma preferì sempre la letteratura, anche grazie all’influsso umanistico che ebbero su di lui la madre e la nonna, grandi appassionate di libri e di musica. Per accontentare il padre, accettò di lavorare come bibliotecario, ma fu congedato per malattia.

Trascorse una vita apparentemente oziosa, frequentando i salotti dell’alta borghesia. Ebbe la reputazione di uno snob, tanto per carattere, quanto per inclinazioni intellettuali. Nel 1903, perse il padre e due anni dopo anche l’amata madre. Soffrì moltissimo. Rimase a lungo in uno stato di avvilimento e di depressione. Ereditò una vera fortuna e visse nel lusso. Il suo stato fisico continuò a deteriorarsi. Praticamente si rinchiuse nel suo appartamento parigino di Boulevard Haussmann, e si dedicò all’opera della sua vita: il racconto della sua anima.

Lontano dalla mondanità, al riparo dalla società francese, Proust riflette sulla memoria, sull’arte, sul tempo, sulla poesia, sull’identità. Indaga il tempo, tracciando una contingenza tra passato e presente. Indaga il funzionamento della mente, cambiando per sempre la narrazione delle percezioni umane.

Nella Ricerca, il narratore presenta una storia intrecciata, sulla base di eventi ed episodi che ne richiamano altri il più delle volte fuori sequenza. Una qualunque esperienza sensoriale, dall’ascolto di una canzone all’assaggio di un particolare cibo, è in grado di suscitare un racconto prima incentrato sull’infanzia e subito dopo sull’età adulta. “E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me”, si legge nel romanzo, “E quando ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di madeleine che la zia inzuppava per me nel tiglio, subito la vecchia casa grigia verso strada, di cui faceva parte la sua camera, venne come uno scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino e costruito sul retro per i miei genitori (cioè all’unico isolato lembo da me rivisto fino a quel momento); e, insieme alla casa, la città, da mattina a sera e con ogni sorta di tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove facevo qualche commissione, le strade percorse quando il tempo era bello”.

I ricordi, i frammenti del passato, come piccoli pezzi di un puzzle si combinano in modo progressivo fino a comporre l’intera opera. L’immenso edificio del ricordo – la cattedrale in continua costruzione – si impone come vincolo identitario, memoria extratemporale inconscia e inattesa che viene utilizzata al servizio dell’arte. Proust ricrea il labirinto della sua – della nostra – mente, in maniera disarmante e potente racconta il mondo interiore attraverso i ricordi sepolti.

C’è un saggio del 1998, dello scrittore Alain De Botton, che si intitola Come Proust può cambiarvi la vita. Si tratta di una guida esistenziale per il conseguimento di una felicità quotidiana, e si ispira al grande scrittore francese, sensibile compagno dell’anima oltre il tempo e lo spazio. Colui che è riuscito non tanto a rappresentare emozioni e persone simili a quelle della nostra vita reale, ma piuttosto a descriverle molto meglio di quanto saremmo mai in grado di fare, e addirittura, a farci scoprire nostre percezioni che non avremmo mai potuto cogliere altrimenti.


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