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La strega di Biancaneva

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Tra la malvagia Grimilde e la dolce Biancaneve, chi sarebbe oggi l’influencer perfetta? Un cantilenante “specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?” sguscia via dalle fiabe Disney, dal mondo della finzione, dove credevamo che l’ossessione per la bellezza fosse relegata perché non poteva ragionevolmente aver posto nel mondo reale; entra nei nostri social e, non da ultimo, nei nostri pensieri, fino a diventarne parte indissolubilmente.

Un mondo insidioso, quello dell’industria della bellezza, che in pochi riescono a riconoscere, anche una volta smascherato. Pochi giorni fa Sara Melotti, ex fotografa di moda, ha postato sul suo profilo Instagram un lungo reportage di fotografie e dichiarazioni inequivocabili su come la libertà di essere venga quotidianamente manipolata e plasmata dall’ideale standard di bellezza imposto da pubblicità, giornali e sponsorizzazioni; messaggi, subliminali e non, che diventano un pericoloso veicolo di cattive abitudini e scarsa considerazione di sé.

Sara Melotti è una fotografa e fino al 2015 lavorava per la moda. Scattava foto a modelle dai corpi statuari subendo, indirettamente, l’influenza tossica di quei parametri di bellezza irraggiungibili e contribuendo alla loro diffusone.

Un giorno si ritrova a fotografare una modella di quattordici anni. Davanti all’obiettivo la ragazzina è perfettamente a suo agio, tanto che – senza che Sara glielo avesse chiesto – inizia ad assumere pose provocanti, sul filo del soft porn.

È un attimo: a Sara esplode qualcosa nella testa, una scintilla che finalmente sa di sano, di lucidità. “Ma che cosa sto facendo?”

Niente del lavoro che faceva aveva più senso, racconta ancora su Instagram, su quella stessa piattaforma che ospita migliaia di modelli sbagliati di bellezza e femminilità, e si ritrova dall’altra parte della sponda ad osservare quello che era stato il suo lavoro fino a poco tempo prima con gli occhi di chi, quel lavoro, lo subiva. Sara inizia così un vero e proprio excursus storico che pianta le proprie radici persino ai tempi della Prima Guerra Mondiale quando, nel momento in cui gli uomini delle famiglie erano impegnati al fronte, le donne, in casa e fuori casa, dovevano iniziare a ricoprire ruoli mai investiti prima. Iniziavano, quindi, a guadagnare un po’ di indipendenza, anche dal punto di vista economico.

Questa presa di consapevolezza poco piaceva agli uomini, detentori assoluti dell’autonomia di genere, al punto che trovarono il modo per far spendere alle loro donne quei soldi guadagnati: investendoli nella cura del proprio corpo, facendo credere loro che avessero bisogno di “darsi una sistemata” e che il loro aspetto avesse un problema.

Ci siamo mai chiesti perché l’ideale di bellezza tipico della donna sia passato dal corpo generoso della Venere di Botticelli a quello delle modelle sottopeso con cui il marketing ci bombarda quotidianamente? Il motivo è proprio il fatto che il corpo della donna fosse considerato come un potenziale “problema ideale” su cui lavorare costantemente: nascono così le creme per la cellulite, condizione tutt’altro che problematica quanto piuttosto fisiologica, strategicamente trasformata in una patologia demoniaca da debellare, pena l’esclusione dall’apprezzamento della società.

Sara prosegue con un’analisi del lavoro sulle fotografie. Spiega che tentare di raggiungere la corporatura, la pelle liscia e i tratti divini delle modelle è pressoché impossibile, dal momento che tutto ciò che si vede nella fotografia altro non è che un lunghissimo lavoro di editing che mira a “tirare” la pelle tutta su un tono. Altra chicca tossica: nel paragone tra gli uomini e le donne, solo i primi possono permettersi di invecchiare e mostrarsi alle fotocamere esattamente per come appaiono: pieni di rughe e di segni del tempo, perché si sa, gli uomini non invecchiano: diventano affascinanti. Le donne, invece? Anche a una certa età la loro pelle sui giornali va costantemente lavorata e resa del tutto anacronistica e del tutto irreale. Così come nella storia della “Vecchia Imbellettata” di Pirandello, le povere “comuni mortali” si gonfiano di ritocchi, trucchi, filtri e abbigliamenti improponibili pur di risultare più giovani.

Nel reportage di Sara si toccano tutte le corde del sistema tossico che gestisce la bellezza odierna: lo sbiancamento delle modelle di colore, in un climax di bellezza che porta alla modella “bianca” accompagnata dalla didascalia “white is purity”; la mercificazione del corpo della donna, ritratta in tantissime pubblicità come un mero oggetto del desiderio del “branco di maschi alfa oliati”, come li chiama Sara; l’auto-oggettivizzazione della donna nel pubblicare foto di se stessa eccessivamente provocanti o senza veli, che, afferma Sara, non è femminismo, ma solo un’interiorizzazione di tutto quello che finora è stato messo sotto i riflettori: il web è un posto troppo limitato perché la foto di un sedere a pieno schermo possa significare qualcosa di più di ciò che è. In questo modo, spiega Sara, finiremo con l’alimentare il concetto che identifica una donna da una foto che ne ritrae soltanto una parte.

Sara, però, sa che i bombardamenti non investono solo le donne: gli addominali scolpiti e i corpi perfetti degli uomini da copertina possono rappresentare un altro problema per il pubblico maschile, così come, anche per loro, la pubblicizzazione di prodotti “ferma-tempo” che nessun effetto, di fatto, sortiscono alla loro giovinezza.
Specchio, servo delle mie brame: chi è la più bella del reame?

La risposta di Sara è univoca: la più bella del reame è quella che non ha bisogno di chiedere chi lo sia; è quella che non vive di paragoni, ma di equità, che non confida nell’estetica, ma nel talento, proprio e degli altri. La più bella del reame è quella che lo specchio lo sa rompere.


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