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Orhan Pamuk

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La ricerca di uno scopo per vivere caratterizza i personaggi dei suoi libri: Orhan Pamuk e le identità sfumate tra Islam e Ovest

Gli eventi, pubblici o privati, tessono la trama di infiniti racconti possibili, in cui pensiero e letteratura, filosofia e poesia ci conducono al cuore segreto del nostro domandare. Filosofia e letteratura sono articolazioni di un tessuto vivente che ci accompagnano nel difficile “mestiere di vivere” lungo un percorso che trascorre tra la nostra quotidianità e le domande di senso. La grande letteratura al pari della filosofia non può sottrarsi a questo compito che si situa nel difficile punto d’incrocio fra irreversibilità del passato e contingenza indeterminata dell’avvenire. L’Opera di Orhan Pamuk, non si sottrae a questo compito.

Pamuk uno tra i maggiori protagonisti della letteratura contemporanea, non ha quasi mai lasciato Istanbul, dove è nato nel il 7 giugno 1952, ambientandovi molti dei suoi romanzi. Nel discorso tenuto nel 2006, all’Accademia Svedese in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Pamuk ricordò un episodio avvenuto molti anni prima: «Pieno di trepidazione avevo consegnato a mio padre il dattiloscritto del mio primo romanzo perché lo leggesse e mi desse un parere».

Era il 1974 e Pamuk aveva solo ventidue anni quando decise che sarebbe diventato uno scrittore (abbandonando gli studi di architettura e le ambizione da pittore) e, come lui stesso afferma, si chiuse in una stanza per portare a termine il suo primo romanzo: Il Signor Cevdet e i suoi figli (tutti i libri dello scrittore sono pubblicati in italiano dalla casa editrice Einaudi), un’ambiziosa saga che attraverso la storia di una famiglia di Istanbul ripercorre un secolo di vicende legate alla Turchia, dal disfacimento dell’Impero ottomano alla rivoluzione kemalista di Atatürk; dalla nascita della Repubblica fino ai colpi di stato militari degli anni settanta.

Tutti i personaggi dei libri di Pamuk sono alla ricerca di un’identità, di uno scopo per vivere, in un paese sospeso tra tradizione e occidentalizzazione. Tra questi personaggi si potrebbe inserire lo stesso Pamuk che si confronta, con amore, con la grande tradizione europea del romanzo, da Balzac a Zola, da Dostoevskij a Tolstoj, Da Hölderlin a Thomas Mann, per elaborare un percorso e una lingua personalissima.

Dunque, Istanbul, i suoi quartieri, a cominciare da Nisantası, dove risiede lo scrittore, sono lo scenario delle sue storie. Aggirarsi per le strade di Çukurcuma, di Beyoglu, di Cihangir significa respirare il tempo e la vita di Pamuk e le storie raccontate nei suoi romanzi. Qui abitavano le minoranze non musulmane della città: genovesi, greci, armeni ed ebrei che gestivano panetterie, negozi di rigattieri, drogherie, botteghe artigiane e altri piccoli commerci.

Alla sua città, il grande scrittore turco, ha dedicato un ulteriore struggente atto d’amore, scritto nel 2003, Istanbul. «…Parlo del colore dei cipressi, dei boschi bui nelle valli, delle abitazioni di legno trascurate, sgombrate e abbandonate, delle barche arrugginite e malmesse, della poesia delle navi e delle ville dello stretto che soltanto chi ha passato la vita su queste rive può capire; parlo del sapore della vita tra le rovine di una civiltà una volta grande, maestosa e originale, della voglia di un bambino, che non bada affatto alla storia e alle epoche, di essere felice, di divertirsi, di comprendere questo mondo, e delle indecisioni e dei dolori di uno scrittore e dei desideri che lui chiama vita e delle sue esperienze…».

Così la sua autobiografia si confonde con quella della città, la sua tristezza di bambino si dipinge sugli angoli delle strette viuzze di certi quartieri di Istanbul o sui gabbiani immobili sotto la pioggia, o sulle cicogne che, in autunno, sorvolano il Corno d’Oro. La sua storia e la geografia della città diventano un tutt’uno come se ogni dettaglio architettonico, ogni muro, ogni piccolo negozio nella via del palazzo di famiglia, parlassero la lingua dei tempi della sua vita.

Le atmosfere che circondano Istanbul, l’antica Costantinopoli e poi Bisanzio, capitale dell’impero d’Oriente, punto d’incontro e crocevia tra Oriente e Occidente, città magica, sono avvolte da un sogno quando la nebbia mattutina sembra nascondere i colori dei muri di Sultanahmet, il centro storico della città e le strade in salita dei quartieri che si affacciano sul Bosforo. Tutto a Istanbul sembra pura perdita: le case e i palazzi in legno bruciati, le nuove costruzioni che cambiano il paesaggio.

Tutto sembra schiacciato sotto il peso della tensione tra modernità e tradizione. Insieme le due anime della città – moderna e antica, occidentale ed asiatica – contribuiscono a creare quell’atmosfera che rende speciale Istanbul. Un sentimento poetico «per molti versi simile a quello che gli artisti occidentali hanno sempre chiamato malinconia», nota Pamuk, «che qui si chiama hüzün ed è una forma di tristezza, non individuale e privata, ma collettiva e condivisa».

Nel Corano questa parola sta ad indicare lo stato d’animo determinato da una grave perdita spirituale e dal distacco irreversibile da una persona amata. Il concetto è stato ripreso nella filosofia sufi per indicare l’emozione generata dalla consapevolezza dell’incolmabile distanza tra l’uomo e Dio. Tale sentimento è tuttavia estremamente positivo, poiché è visto come una condizione esistenziale necessaria per intraprendere il cammino mistico di riavvicinamento alla divinità.

Un gioco di specchi. Un labirinto di strade osservate dalla finestra in una sera d’inverno. «Istanbul è un sogno dentro un sogno popolato di viaggiatori, poeti, mercanti, venditori ambulanti.

La geografia di questa città non può andare avanti senza perdere qualcosa, come la nostra vita. Architetto e disegnatore, Pamuk è un osservatore minuzioso della sua città, che ci dipinge anche grazie allo sguardo che le hanno rivolto altri scrittori. Lo sguardo di Pamuk, ne fa un teatro dell’anima e di conflitti antichi e nuovi. Nei suoi romanzi, storia e memoria si intrecciano e la sapienza narrativa di Pamuk dà voce alla storia della Turchia, agli snodi problematici che l’hanno attraversata e al moltiplicarsi dei conflitti religiosi, tra identità nazionali; al confronto/scontro tra Occidente e Islam, al tema della Modernità e agli snodi politici che ancora oggi affliggono il paese dominato dall’ingombrante e imbarazzante figura di Erdogan.

Pamuk stesso ha sperimentato il livello di guardia raggiunto, nel suo paese, quando nell’estate del 2005 viene incriminato dalla magistratura a seguito di alcune dichiarazioni fatte a una rivista svizzera sul genocidio degli armeni e i massacri dei curdi. A seguito tuttavia delle pressioni internazionali e dell’imbarazzo del governo turco, le accuse vengono infine ritirate il 22 gennaio 2006. Tuttavia, successivamente, lo scrittore subisce, numerose minacce di morte che lo costringono a lasciare, temporaneamente il suo paese. Pamuk è stato il primo scrittore nel mondo musulmano a condannare la fatwa iraniana contro Salman Rushdie.

Nella sua Opera, maestoso si erge il tema del tempo e del suo svanire, accompagnato dagli insondabili silenzi di certe memorabili pagine di un suo struggente romanzo, Neve del 2002. Qui come negli altri libri Pamuk riprende il tema dell’appartenenza e dell’identità. Così come avviene nel suo ultimo romanzo appena pubblicato in Italia: Le notti della peste. Sull’isola, che non esiste, di Minger, e che nell’immaginario di Pamuk è situata tra Creta e Rodi, abitata da musulmani e cristiani, nel 1901, si svolge un dramma politico, uno scontro tra diverse culture con al centro la paura della morte, l’epidemia, lo Stato, le identità nazionali e la rivolta.

Mentre imperversa la peste si diffonde un sentimento di ribellione contro lo stato-nazionalista che diventa Leviatano, esso stesso peste. La peste è, per Pamuk, la chiave di interpretazione dell’allegoria del potere. È un modello di un processo storico che ha i propri riferimenti letterari in DeFoe, Manzoni e Camus. Sospesa tra passato e promessa di un mondo nuovo, qualche volta senza un’anima, la sua opera ci parla delle nostre identità sfumate, necessariamente e incompiute.


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