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LA DOMANDA che si è affacciata in tanti davanti al diffondersi del flagello del CoVid19 è stata quella che viene suscitata in ognuno di noi dal dolore e dalla morte, quando vengono a toccare i nostri affetti e le nostre persone: perché? Perché questo male? Perché tutto questo dolore? Per molti è stato rapido il passo da questi interrogativi alla domanda radicale, quella che riguarda il supremo responsabile di tutto: se Dio c’è ed è giusto e buono, perché permette che un male così subdolo si accanisca sui suoi figli, in particolare sui più deboli e indifesi?

Si tratta di una domanda antica, che ritorna con drammatica attualità, sia per l’insorgere improvviso della pandemia, sia per lo spettacolo nuovo e inaspettato di fragilità e di sofferenza cui assistiamo, tanto tragico, quanto vicino a noi, alle nostre vite, ai nostri affetti, al nostro lavoro, alle nostre case. Il mito illuministico dell’uomo signore del suo destino e padrone delle sue forze, vittoriose su tutto, è messo in discussione dalle fondamenta.

E il volto di Dio? Come si presenta di fronte a tanto dolore il Dio che Gesù Cristo ha rivelato come amore? Una prima risposta a questo interrogativo è certamente che il Dio annunciato dal Figlio venuto fra noi non è lo spettatore impassibile di fronte al male del mondo, né tanto meno l’arbitro dispotico del dolore e della gioia delle Sue creature. Piuttosto, è il Dio con noi, che soffre per il nostro dolore perché ci ama, che lo permette perché ci lascia liberi, che proprio nel Figlio crocifisso ci aiuta a portare la Croce come Lui l’ha portata. Nella morte di Croce il Figlio è entrato nella finitudine dell’uomo, nell’abisso della sua povertà, del suo dolore, della sua solitudine, della sua oscurità. E lì, bevendo l’amaro calice, ha fatto fino in fondo l’esperienza della nostra condizione umana: sulla via del dolore è diventato uomo fino alla possibilità estrema, fino a far sua la morte. Questa “morte in Dio” non significa, però, secondo la fede cristiana la “morte di Dio” che l’ “uomo folle” di Nietzsche andava gridando sulle piazze del mondo: il calice della passione di Dio si è colmato a Pasqua di una bevanda di vita, che sgorga e zampilla in eterno. Nel dolore il Signore crocifisso è dalla nostra parte, con noi e per noi. Nella sua resurrezione è offerta una speranza di vita per tutti, più forte di ogni ultimo silenzio.

Anche nel tempo del Coronavirus può avvenire, allora, quello che avvenne un giorno sulle strade della Galilea: «Dovunque (Gesù) giungeva, in villaggi o città o campagne, ponevano gli infermi nelle piazze e lo pregavano di potergli toccare almeno la frangia del mantello; e quanti lo toccavano guarivano» (Mc 6,56). Il tocco di Gesù guarisce perché è il tocco di Dio, quel Dio che si è fatto uomo per amore nostro, per “toccare” e condividere in tutto la nostra condizione umana e trasmetterci il dono della salvezza che viene da Lui. Il luogo dove questo tocco divino raggiunge il suo vertice è la Croce: è lì che Gesù ci ha rivelato l’amore di Dio per ogni essere umano e la possibilità di divenirne partecipi, tutti, senza eccezioni. E lo Spirito, consegnato da Gesù morente al Padre, è stato effuso per essere il divino Consolatore, che ci aiuta a vincere il male, a trasformare il dolore in amore, la sofferenza in offerta, la malattia in guarigione, la fragilità in forza, anche di fronte al flagello di questo virus devastante. Raggiunto dal tocco di Dio nella croce e risurrezione di Gesù, chi crede in Cristo sa di poter percorrere l’oscuro cammino della prova e farne scuola di fede e di carità, sorgente di amore che libera e salva: «Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,38 e Lc 14,27). Chi ama il Crocifisso e lo segue, non potrà non sentirsi chiamato a lenire le croci di coloro che soffrono, nell’attiva dedizione agli altri, nell’impegno operoso e vigile per fare di ogni Calvario un luogo di resurrezione e di vita piena.

È quanto hanno fatto tanti, medici, infermieri, operatori della sanità, sacerdoti, lavoratori impegnati per il bene comune e i servizi essenziali nel tempo di questa pandemia. Attraverso di essi ci raggiunge il tocco della grazia divina, che perdona, sana, conforta e rinnova, e si manifesta la vittoria del Signore, risorto alla vita. Anche così Dio ci sta parlando in questa drammatica pandemia. Una poesia di Emily Dickinson – voce solitaria dell’800 americano – dice: “Chi non ha trovato il cielo quaggiù / lo perderà lassù. / Perché gli Angeli affittano la casa accanto, / dovunque traslochiamo”. Occorre, allora, invocare gli occhi della fede per riconoscere “i santi della porta accanto”, come li chiama papa Francesco, e prendere esempio da loro.

*Arcivescovo di Chieti-Vasto


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