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Foto da www.psicologia e benessere.it

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Ci sono sempre stati nella storia dell’umanità momenti nei quali la forza persuasiva della scienza ha subito qualche contraccolpo. Così come ci sono stati ampie porzioni di storia durante le quali l’umanità ha fatto proprio a meno della scienza, pur procedendo, anche se magari con maggior fatica e con tempi più lunghi. Quello che stiamo vivendo oggi è apparentemente figlio di un paradosso: si tratta di un momento nel quale la ricerca scientifica è molto sviluppata, fornisce spiegazioni esaurienti e dettagliate, eppure…

Eppure, soffre di un calo di fiducia. Il perché è un fatto complesso che necessiterebbe quindi di un approccio sistemico, multidimensionale: vi sono infatti ragioni biologiche e culturali, mediate da aspetti culturali, economico-sociali e politici che andrebbero analizzate appunto in una visione fatta di trame e orditi di non immediata rappresentazione. In ogni caso un ragionamento di massima è possibile, e proveremo quindi ad affrontare il problema del sapere scientifico nel suo ineludibile intreccio con quella caratteristica che da sempre accompagna homo sapiens, che lo ha indirizzato nei momenti di assenza di conoscenze scientifiche adeguate (che sono stati tanti e molto lunghi, in verità) e che gli hanno comunque permesso di non estinguersi e di popolare il pianeta: parliamo del senso comune.

Diciamo subito che il senso comune non gode – né ha goduto in passato – di grande attenzione da parte della scienza, e le ragioni sono facilmente intuibili: va aggiunto che neanche le scienze dell’uomo più tradizionali, la filosofia e la sociologia in prima istanza, vi hanno dedicato una grande attenzione. Il senso comune è, per alcuni versi, antitetico rispetto al ragionamento scientifico, e questo basta per capire in quanta considerazione venga tenuto dagli scienziati. Sia chiaro, il senso comune non è fallace di per sé, anzi: molto spesso si è rivelato vero, tanto che appunto ha permesso comunque alla nostra specie di sopravvivere anche in assenza di chiare indicazioni scientifiche. Ha solo il grande difetto di non essere scientificamente dimostrabile, di non poter essere insomma interpretato in alcun modo come una legge, con i suoi principi, enunciati e conseguenze dirette: ma non per questo, appunto, va demonizzato come il male assoluto.

La principale differenza fra senso comune e ragionamento scientifico sta, in ogni caso, nell’approccio al problema, che risulta essere esattamente speculare in un caso rispetto all’altro. Partiamo dal ragionamento scientifico: solitamente, le questioni scientifiche si presentano in forma controintuitiva perché i termini vero e falso, in ambito scientifico, stanno su due piani molto diversi.

Quando un’ipotesi scientifica viene proposta alla comunità degli scienziati, infatti, ciò che segue non è una serie di tentativi per verificarla: come spiega molto efficacemente Karl Popper nel suo “Congetture e confutazioni”, ciò che segue è in realtà una serie di sperimentazioni tese a stabilire se l’ipotesi formulata regga alla prova dei fatti. In altri termini si tenta di falsificarla, cioè di dimostrare che  non  è vera: laddove non sia possibile la falsificazione, allora la scienza accetta l’ipotesi come vera, anche se magari solo in termini provvisori (nel senso che successivamente, magari, nuove leggi supereranno quella in discussione in quel momento).

Il senso comune ha un approccio dichiaratamente differente, ha necessità di ragionamenti semplici, lineari e immediatamente appropriabili: una prospettiva e una logica di pensiero totalmente diversi, insomma. La situazione è ancora più chiara se ragioniamo sugli strumenti. Gran parte della ricerca scientifica si avvale della statistica per prendere decisioni, ma come ragiona lo scienziato che deve scegliere fra opzioni diverse?

Prendiamo il caso per esempio dei farmaci, e della loro efficacia di contrasto a una determinata patologia. Pur se la farmacodinamica è totalmente nota, e quindi sono noti i risultati che un determinato principio attivo può produrre, quello che la statistica ci permette di fare non è, appunto, provare che il farmaco funzioni ma più semplicemente che l’eventuale beneficio non è frutto del caso. Questo perché nei fatti, la sperimentazione consiste nella somministrazione del principio attivo ad un certo numero di pazienti e a quel punto il nemico del ricercatore è la casualità, che implica la non efficacia del farmaco.

Il percorso di valutazione dell’efficacia, infatti, terrà conto dell’eventuale significativa percentuale di aumento delle guarigioni nei pazienti che hanno assunto il farmaco rispetto a quelli che hanno assunto placebo: la statistica, insomma, non ci dirà se il farmaco è efficace ma solo quale è la probabilità che l’eventuale differenza sia dovuta al caso. Se tale probabilità sarà molto piccola, il ricercatore avrà allora buone ragioni di credere (in maniera probabilistica, val la pensa di ricordarlo) nell’efficacia del prodotto. Altrimenti avrà perso la sua battaglia contro il caso, e bisognerà pensare allora ad altro.

Il buon senso, come anticipato, si muove invece su binari logici totalmente differenti, perché in realtà appare come il risultato di una miriade di micro valutazioni individuali che si fortificano attorno a qualche elemento centrale diventando, così, verità consolidate: accade, per esempio, quando si ritiene diffusamente che le stagioni stiano radicalmente cambiando, che l’abuso della tecnica nel mondo del lavoro possa alla lunga creare disoccupazione o che l’inflazione sia sintomo di poca salute del sistema economico.

È proprio attorno a questi luoghi comuni che agisce il buon senso, quella sorta di propensione naturale che consente a ogni essere umano di valutare con immediatezza il contesto in cui si trova, creare ipotesi su ciò che sta succedendo e poi agire immaginando di ottimizzare le conseguenze dell’azione. È chiaro che tutto ciò ha a che fare con le nostre radici biologiche: il nostro buon senso, infatti, è perennemente al lavoro e svolge una funzione decisiva visto che punta direttamente, in senso lato, alla sopravvivenza. Il ruolo funzionale del senso comune è dunque fuori discussione poiché prima dell’avvento della cultura scientifica, era quella l’unica risorsa cognitiva su cui poter contare per sopravvivere nell’ambiente naturale ed anche per regolare il comportamento individuale nelle interazioni sociali, favorendo in questo modo le relazioni sociali e la costruzione stessa della società.

Detto quindi del ruolo importante che gioca il senso comune, va ricordato che in ogni caso la nostra specie è caratterizzata da limiti fisiologici forti e piuttosto evidenti: le presunte verità che il buon senso riesce a scoprire, trasferendole quindi al senso comune, sono molto spesso gravate da errori e lacune altrettanto forti ed evidenti. Per questo abbiamo bisogno di credere nella scienza: perché altrimenti saremmo ancora convinti di vivere in un sistema geocentrico (perché non è immediato comprendere che sia la Terra a girare attorno al Sole e non viceversa) e nulla sapremmo di virus e batteri, che sono di dimensioni non apprezzabili per le nostre umane capacità visive naturali.

Scienza e buon senso devono quindi ritrovare un equilibrio che restituisca dignità ad entrambi, in una sorta di tollerante ed equilibrato sistema di ragionamento. Purtroppo, nei momenti bui, quelli più difficili da gestire perché avvengono cose che sfuggono al ragionamento lineare di cui vorremmo sempre cibarci e che mettono in allerta il nostro sistema di sensori della sopravvivenza, accade che la scienza venga messa in discussione e osteggiata. Invece che provare a ragionare in maniera più complessa, giochiamo a mettere la testa nella sabbia, oscurando la scienza. Il passato ci ricorda che non è mai stata, quella, una decisione saggia e utile alla collettività. Il futuro invece necessita di cultura e di un approccio alla formazione diverso, con una maggiore integrazione fra saperi.


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