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Viktor Orbán e Giorgia Meloni ad Atreju

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LO STATO di diritto e la procedura ex art.7 sulla violazione dei valori fondamentali dell’Unione europea è tra i temi del Consiglio affari generali di oggi a Bruxelles. I ministri che partecipano alla riunione si confronteranno sulla proposta della Commissione europea di sospendere circa 7,5 miliardi di euro di fondi destinati all’Ungheria proprio per la reiterata violazione delle basi dello stato di diritto. In sostanza, si tratta del 65 per cento dei fondi stanziati a favore di Budapest nell’ambito di tre programmi della politica di coesione dell’Ue. Per adesso si tratta soltanto di una proposta. O, se si preferisce, di una minaccia.

Da 12 anni a questa parte, il governo del primo ministro ungherese Viktor Orbán ha suscitato critiche da parte dei gruppi della società civile ungherese ed europea e dagli organismi comunitari per aver minato il sistema di check and balance nel Paese. L’influenza del partito di governo Fidesz sulla magistratura, il controllo della gran parte dei media e la corruzione dilagante sono le preoccupazioni principali della Commissione. Per queste ragioni si parla di Orbán come del creatore di un sistema ibrido di “democratura”, ovvero di una democrazia illiberale nella quale resistono le parvenze di una vita democratica normale come le elezioni, ma di fatto il potere resta saldamente nelle mani dell’autocrate al governo.

In ogni caso, le mosse di Bruxelles non saranno immediate. Gli Stati membri hanno ora un mese per decidere se adottare la proposta della Commissione, con la possibilità di rimandare la sanzione di altri due mesi. Nel frattempo, bisognerà attendere le reazioni del governo di Budapest che si è impegnato a informare la Commissione sull’adempimento delle indicazioni ricevute da Bruxelles per sanare la sua situazione entro il prossimo 19 novembre. Fonti dell’esecutivo ungherese garantiscono che il governo aveva già iniziato ad attuare gli impegni alla fine di agosto. Obiettivo: garantire che la cooperazione con la Commissione europea si svolga senza intoppi e che la procedura di condizionalità possa essere formalmente chiusa il prima possibile. «I primi due pacchetti legislativi su questo tema sono attesi per il 19 e il 23 settembre», ha affermato il ministro magiaro per lo sviluppo regionale e i fondi dell’Ue, Tibor Navracsics.

Intanto, il governo polacco, che è stato a sua volta nel mirino della Commissione per la violazione dello stato di diritto, ha dichiarato la sua opposizione alla sospensione dei fondi allo stato magiaro. Ma da alcuni giorni il nodo Ungheria entra a piedi uniti anche nella campagna elettorale italiana. La settimana scorsa Lega e Fratelli d’Italia sono stati gli unici due partiti italiani nel Parlamento europeo a votare contro la procedura di condizionalità nei confronti dell’Ungheria.

Un atteggiamento che ha scatenato la reazione degli altri partiti che da mesi accusano la destra di strizzare l’occhio alla finta democrazia di Orbán e di prepararsi a guidare un governo illiberale sui diritti, sovranista in politica estera e contrario ai valori europei. Nella conferenza stampa di venerdì era stato addirittura Mario Draghi a stigmatizzare l’atteggiamento di Giorgia Meloni, senza mai nominarla: secondo il premier, privilegiare un rapporto di amicizia con l’Ungheria a scapito di Germania e Francia non coincide con gli interessi dell’Italia.

Giorgia Meloni, che si candida a guidare il prossimo governo sull’onda di un successo elettorale della destra che appare certo, avrebbe potuto glissare e fare la gnorri, facendo finta che l’attacco non fosse rivolto a lei. Viceversa, ha preso senza remore le difese del primo ministro ungherese, rivendicando la sovranità nazionale dei Paesi membri contro le istituzioni di Bruxelles. La cosa non può stupire dato che la leader di Fratelli d’Italia da sempre strizza l’occhio all’idea di Europa di Orbán come civiltà tradizionale e fortezza chiusa all’esterno. Una visione conservatrice e regressiva fondata sulla famiglia tradizionale come forma sociale privilegiata e su di una legislazione spietata contro le donne che scelgono l’aborto, contro le persone Lgbt e contro gli immigrati che inquinerebbero la purezza della popolazione magiara.

Meloni vive poi su una contraddizione insuperabile: critica l’incapacità dell’Europa di decidere tempestivamente sui diversi dossier, ma insiste su una visione intergovernativa e confederale che si basa sul diritto di veto e sulle antiche sovranità nazionali che costituiscono il principale ostacolo al funzionamento dei processi decisionali comunitari. È evidente che tutto ciò avrà una forte ricaduta sulla posizione del prossimo governo.

Chi paventa il pericolo che, con Meloni premier, l’Italia possa trasformarsi in una nuova Polonia o Ungheria probabilmente esagera. Tuttavia, se queste sono le premesse, un governo di destra, con al centro Fratelli d’Italia, renderà più tese le relazioni tra Roma e Bruxelles, declassando l’Italia tra i Paesi sovranisti. Di conseguenza, renderà marginale il nostro paese al tavolo dei paesi membri. Di sicuro, nel passaggio da Draghi a Meloni, si annuncia il declino dell’Italia come potenza europea capace di orientare le politiche dell’Unione.


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