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Il fiasco militare dell’attacco dell’Iran a Israele è in realtà una importante svolta strategica: riduzione dei conflitti e alleanza contro il terrorismo non sono da escludere


Lo spettacolare attacco condotto dall’Iran contro Israele, lanciando centinaia di droni e missili, appoggiato anche da lanci a opera dei suoi alleati e clienti Hezbollah e Houti dalla Siria e dallo Yemen, non ha inflitto gravi danni. Da un punto di vista strettamente militare è stato un fallimento, non essendo riuscito a saturare e infrangere la barriera protettiva antiaerea e antimissilistica di Israele (anche grazie al fattivo appoggio di mezzi americani, francesi, britannici e giordani, e a una collaborazione di altri Paesi arabi, tra cui l’Arabia Saudita). Tuttavia è stato comunque una grossa svolta strategica, che cambia il quadro del conflitto.

GLI USA FRENANO LA REAZIONE DI ISRAELE

Innanzi tutto per Israele. In questi giorni il governo israeliano dibatte sulla opportunità di «punire» militarmente l’Iran per questa sua iniziativa che, benché presentata come una semplice risposta all’attacco condotto (molto probabilmente da Israele, che non conferma né smentisce) contro il suo consolato a Damasco, di fatto equivale a una sorta di dichiarazione di guerra. E poiché la leadership iraniana non ha mai nascosto la sua opinione che Israele non dovrebbe esistere, è una sorta di minaccia esistenziale.
Certo, per ora l’Iran non sembra avere i mezzi per colpire seriamente, né tanto meno distruggere, Israele, ma la situazione potrebbe cambiare se, per esempio, il processo illegale di arricchimento dell’uranio che Teheran sembra aver ripreso alla grande, ignorando le restrizioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, portasse alla costruzione di ordigni nucleari.

Si possono quindi capire le preoccupazioni degli israeliani, che però debbono trovare la migliore strategia per farvi fronte. Non è affatto detto che un atteggiamento più bellicoso, che moltiplichi attacchi e provocazioni limitate, avrebbe risultati positivi.
Al contrario, potrebbe accrescere la determinazione degli avversari. D’altro canto, non sembra che Israele abbia le capacità militari per infliggere un colpo decisivo all’Iran, per esempio distruggendo i laboratori impegnati nel programma nucleare.
Per avere una seria speranza di successo, una simile scelta dovrebbe essere appoggiata da un forte impegno diretto delle forze Usa, dando origine a una nuova, massiccia, costosa e imprevedibile guerra del Golfo. Ma gli Usa non sembrano affatto intenzionati a percorrere tale strada.

Al contrario, il presidente Biden ha suggerito a Netanyahu di chiuderla qui, considerando il successo pieno del sistema difensivo e, soprattutto, puntando a sfruttare politicamente le conseguenze che questo attacco ha avuto nel comportamento di altri governi arabi.

GLI EFFETTI COLLATERALI DELL’ATTACCO DELL’IRAN A ISRAELE

In pratica, quello che è successo è che questo show di forza degli iraniani ha spaventato gli altri Paesi della regione, mettendo provvisoriamente in secondo piano anche la guerra che Israele sta conducendo a Gaza.
Si tratta di un mutamento ancora molto fragile, che errori di comportamento israeliani potrebbero rapidamente vanificare, ma che potrebbe anche consentire di riprendere fattivamente quel dialogo che, prima dell’attacco terroristico del 7 ottobre, sembrava sul punto di normalizzare finalmente le relazioni di Israele anche con l’Arabia Saudita, ma che le operazioni militari prolungate a Gaza avevano messo da parte.

Avere un pericoloso nemico comune di cui preoccuparsi può essere un forte incentivo alla ripresa del dialogo, a condizione di ridurre gli altri elementi di attrito che mobilitano contro Israele l’opinione pubblica araba. Questa potrebbe anche essere una delle strade per avviare a soluzione la complessa questione della popolazione palestinese.
È però chiaro come questa strada non coincida, almeno per ora, con le preferenze politiche del primo ministro israeliano. Tutto sembra quindi dipendere dagli equilibri interni della coalizione di governo israeliana e dalla capacità degli avversari dí Netanyahu di condizionare le scelte del gabinetto di guerra e di affrettare una conclusione delle operazioni militari nella striscia di Gaza, per poter poi andare a nuove elezioni.

A seconda di come evolverà la situazione, il quadro del Medio Oriente, che oggi appare particolarmente confuso e frammentato, potrebbe anche evolvere verso nuove direzioni, favorendo la formazione di due gruppi più solidali di Paesi, attorno all’Iran e attorno alle maggiori potenze sunnite, con Israele e i Paesi occidentali più vicini a quest’ultimo, mentre l’altro troverebbe presumibilmente l’appoggio da parte della Cina e della Russia.
Non si tratterebbe in nessun caso di nuovi blocchi, sul modello dei vecchi schieramenti della guerra fredda, se non altro perché questi Paesi manterrebbero un forte rapporto con il gruppo del cosiddetto Sud Globale che si è andato formando a partire dal nucleo dei Brics: anche questo tutt’altro che un sistema chiuso e pienamente solidale, che però accresce l’importanza di posizioni che un tempo venivano definite semplicemente come “non allineate” e che oggi offrono una scappatoia al gioco degli allineamenti pro e contro le maggiori potenze.

LA SEMPLIFICAZIONE È UNA POSSIBILITÀ

Con questi limiti, tuttavia, tutto ciò potrebbe portare a una semplificazione degli equilibri mediorientali. E a una riduzione della conflittualità. Nella migliore delle ipotesi potrebbe anche facilitare una più larga ed efficace alleanza contro il terrorismo internazionale, riducendo, e possibilmente annullando, l’importanza delle grandi centrali terroristiche che oggi contribuiscono in modo così sostanziale alla conflittualità regionale e che troppo spesso trovano nelle rivalità tra i vari governi spazi politici e operativi pericolosi, come ancora avviene per Hamas, ma anche per l’Isis e per Al Qaida.

Queste situazioni sono al momento solamente ipotesi, possibilità che devono essere perseguite e verificate. L’alternativa potrebbe però essere veramente disastrosa, collegando più strettamente la crisi in Medio Oriente con la guerra in Ucraina e affrettando in questo modo la globalizzazione del conflitto.


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