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Matteo Salvini e Giorgia Meloni

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NON c’è mai stata una lite plateale in questi lunghi 11 mesi di governo, né tantomeno c’è chi sostiene che tutto potrebbe implodere fra qualche giorno ma sia chiaro, Giorgia Meloni e Matteo Salvini discutono, spesso ridono, a volte si divertono quando leggono retroscena sui giornali che li riguardano, si mandano continuamente messaggi, ma – aggiunge una fonte qualificata – spesso e volentieri divergono. Non c’è mai stata «chimica» fra due che provengono da storie politiche differenti anche se nello stesso perimetro coalizionale.

Under 50 entrambi, Giorgia figlia della filiera Msi-An-Pdl, Matteo sempre ancorato al leghismo, salvo poi provare a trasformare via Bellerio in un partito diffuso in tutto lo Stivale. Differenze: Matteo è stato al governo con i 5Stelle e con Mario Draghi, Giorgia prima dell’ottobre del 2022 era sempre stata dall’altra parte del campo.

Premessa utile a capire cosa è successo nell’ultimo anno. L’upgrade di «Giorgia» a Palazzo Chigi ha cambiato il gioco dei ruoli. L’inquilina di Palazzo Chigi ha assunto la postura da presidente del Consiglio di un Paese fondatore dell’Unione europea. Sì, è vero, a volte – come sussurra qualcuno – «le scappa la frizione», ma questo è più legato alla storia politica che non si può certo definire moderata. E dunque Giorgia ha lavorato in una sola direzione per essere considerata una «premier» «affidabile»: dal sostegno al Kiev al rapporto solido con gli Stati Uniti, dall’asse con Ursula von der Layen alle politiche economiche sostenibile rispettando i parametri europei. Salvini è invece tornato in modalità «Papeete», guastafeste tout court. Obiettivo, nemmeno tanto velato, riconquistare i consensi lasciati per strada. Su queste note l’ultimo motivo di scontro tra premier e vicepremier è legato al caso Vannacci, il generale autore di un libro che ha riscosso successo ma gli è costato un’azione disciplinare da parte del ministero della Difesa, un testo più che discutibile per le opinioni espresse sul mondo Lgbtqi+. Eppure, nonostante il pamphlet abbia sollevato più di un malumore nei palazzi della politica, Salvini ha avuto un atteggiamento aperturista nei confronti del generale, sino ad offrirgli una candidatura alle elezioni europee. Lo ha chiamato, lo ha corteggiato. Salvo poi ritrovarsi un Vannacci in versione «quando deciderò di scendere in campo lo dirò io». Oltretutto le truppe di Salvini continua a solleticare le ambizioni di Vannacci. «Se il generale Vannacci volesse candidarsi con noi, le porte della Lega sono aperte» dichiara Andrea Crippa, vicesegretario di via Bellerio. E ancora: «Il generale ha una storia al servizio del Paese e posizioni e valori che sono anche i nostri. Sulla necessità di reclamare un ruolo più incisivo in Europa, su un’immigrazione difficile se non impassibile da sostenere sotto diversi profili, sul no al pensiero unico… Aggiungo che è stato anche coraggioso, poteva benissimo starsene zitto».

Tutto questo non è stato certo un bel segnale per Palazzo Chigi. Anche perché la premier ha mantenuto un atteggiamento distaccato dal pamphlet del generale e non si aspettava che le parole di Vannacci venissero proprio rilanciate dall’alleato di governo. In sostanza, da un vicepremier come Salvini avrebbe preferito un atteggiamento istituzionale: «In virtù del ruolo non può sostenere chi critica l’azione dell’esecutivo» un fedelissimo della premier. La distanza resta. E si può allargare alla manovra di bilancio, per la quale il leader della Lega chiede risorse per pensioni, quota 41 è il suo obiettivo, e per il Ponte sullo Stretto. E ancora all’autonomia differenziata, proposta di riforma caldeggiata dai leghisti che Meloni ha accettato a condizione che al contempo si approvasse la modifica della forma di governo.

Nelle prossime settimane si comprenderà chi avrà la meglio. Di sicuro Salvini si ritroverà come avversario Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia ha già fatto sapere che la legge finanziaria dovrà essere nel segno della sostenibilità. E cosa dire poi delle divergenze sulle alleanze europee. Dice sempre Crippa: «Giorgia Meloni ha un percorso all’interno della Ue che noi rispettiamo. Quello che stiamo proponendo è un centrodestra forte in Europa grazie all’apporto di tutti i partiti che si riconoscono in questo progetto. In caso contrario, tornerà un’Europa anche guidata dai socialisti. In cui l’Italia sarà subalterna». Ecco, Salvini auspica che i sovranisti facciano un risultato in doppia cifra, così da far saltare ipotesi di maggioranza Ursula ed eventuali alleanze fra Ppe e Pse allargate ai conservatori, ma la Meloni, come si diceva, si tiene lontana da Afd e Marine Le Pen e intende rafforzare l’asse con i popolari. I leghisti si oppongono a questo scenario e rivolgono questa domanda ad Antonio Tajani, uno dei leader dei popolari europei: «Tra Le Pen e Macron, Antonio chi preferisce». Ragion per cui mettere in fila tutte queste distanze tra Salvini e Meloni fa emergere un elemento che preoccupa la war room di Palazzo Chigi: il vero avversario della premier ha il nome e il cognome del vicino di banco che è anche vicepremier.


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