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Leopoldo Trieste

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Era nato Reggio Calabria nel 1917, Poldino, come lo chiamava Federico Fellini, che lo aveva introdotto alla carriera attoriale, quasi per caso, perché Leopoldo Trieste aveva scelto in prima battuta di scrivere per il teatro e per il cinema.

Dal padre Leopoldo aveva ereditato la passione per la lettura e i grandi scrittori, ma fu lo zio paterno, Turi, ufficiale della Marina mercantile che viveva a Trieste, ad aiutarlo moralmente ed economicamente nella sua vocazione di drammaturgo precoce, quand’era ancora studente al liceo Campanella.

A tale scopo, aveva convinto la cognata a spostarsi a Roma nel 1935 per consentire al nipote di seguire il palcoscenico più qualificato in quegli anni, e iscriversi all’università. In tal modo Trieste era riuscito a frequentare la numerosa comunità di intellettuali meridionali operanti nella capitale, tra cui Salvatore Quasimodo. Leopoldo amava molto il calcio e le donne, da buon meridionale, rimanendo scapolo, al punto da meritarsi il titolo di Casanova calabrese: leggenda vuole che si trovasse a fare il provino felliniano per Lo Sceicco bianco proprio  sulle tracce di una ballerina.

Si era laureato a Roma nel 1939 con Natalino Sapegno, secondo relatore Mario Praz, discutendo una tesi su Luigi Tansillo, poeta cinquecentesco, che gli valse il premio Corsi e l’iscrizione agli studi di perfezionamento. L’etnologo Raffaele Pettazzoni gli aveva assegnato una borsa di studio per Boston, ma lo scoppio della guerra vanificava questa opportunità. Sempre nel 1939 si era iscritto al corso di regia nel Centro sperimentale di cinematografia, inseguendo la giovane attrice Adriana Benetti di cui s’era invaghito.

Ma già a diciotto anni aveva scritto almeno sette commedie, tutte nella misura dei tre atti; il primo testo però fu rappresentato solo nel 1945 al Quirino di Roma: La frontiera, per la regia di Mario Landi, con scene di Domenico Purificato. Il dramma, edito sul mensile  Teatro  si avvaleva di una breve nota di Luigi Squarzina che ne sottolineava la vitalità e la curiosità sul mondo, al di là della vita morale confinata in pochi personaggi.

Nelle sue opere tutto veniva scandito da dialoghi secchi, contrapposizioni violente e fini contrappunti tra caratteri ben sbalzati. In particolare, Cronaca, il primo copione italiano a parlare di Olocausto, varato a Milano nel 1946, nel 1952 (dopo aver sfiorato Broadway) trasformato in film, Febbre di vivere, regia di Claudio Gora, con Marcello Mastroianni protagonista. dato a Roma nel 1947 con la regia di Gerardo Guerrieri, e la giovanissima Anna Proclemer, presentò la dissoluzione dei valori legata alla catastrofe bellica.

Lo spettacolo fu anche riallestito dal Teatro Stabile di Calabria e portato in tutte le piazze della regione nel 1990, quando veniva riscoperto Trieste come drammaturgo, l’anima sua forse più profonda. Sem Benelli in camerino gli aveva gridato che la fiaccola del teatro era ormai passata nelle sue mani. Capriccio in la minore, radiotrasmesso nel 1948, revisionato quasi mezzo secolo dopo, fu insignito nel 1990 con il premio Flaiano.

Nel mondo del cinema Trieste era entrato all’inizio come soggettista e sceneggiatore in una trentina di titoli, collaborando tra gli altri con Suso Cecchi d’Amico, Mario Monicelli e Cesare Zavattini, e lavorando con registi vari, da Pietro Germi in Gioventù perduta, 1948 a Claudio Gora in Il cielo è rosso, dal romanzo di Giuseppe Berto, 1950. Girò, firmandoli come autore due film di esito controverso e scarsi incassi, ma valorizzati in un secondo tempo, anche in versione fotoromanzo, sia italiana sia francese. Città di notte, fatto circolare nel 1957-58, quando aveva ottenuto uno dei cinque premi di qualità della cinematografia italiana, era nato come dramma radiofonico in cui Trieste vi rovesciava le sue personali osservazioni maturate negli insonni giri notturni, un neorealismo in chiave onirica. 

Il Peccato degli anni verdi, racconta la vicenda di una minorenne sedotta con tentativi di comprarne il silenzio, era stato privato degli aiuti ministeriali perché considerato apolide, essendo la protagonista corsa. In entrambi si ritagliò due particine ironicamente autobiografiche, nel primo alludendo al suo passato di commediografo, mentre nel secondo teneva squinternate conferenze da teosofo in una località turistica e in una boutique alla moda leggeva versi di William Wordsworth.

Nel famoso incontro con Fellini, dice la leggenda che il regista, vedendolo in fila con aspiranti attori gli disse: Non è Leopoldo Trieste lei? Lei scrive bene, perché viene qui a perdere tempo? E Trieste: Mi interessa una ballerina. E Fellini così lo scritturò per il ruolo di Ivan Cavalli in Lo sceicco bianco. L’ anno dopo lo richiamò per I vitelloni facendogli interpretare un ruolo chiaramente ispirato alla sua persona. Cominciava così una carriera di 170 film.

Memorabili alcuni suoi personaggi ; il fragile Carmelo Patané irretito entro la diabolica macchinazione dell’adultero Mastroianni in Divorzio all’italiana di Germi, il sudicio barone Rizieri, ridotto in miseria, un dente annerito a simularne l’assenza e risolini autistici, di Sedotta e abbandonata, sempre di Germi, del 1964 (Nastro d’argento l’anno dopo), il maritino malaticcio e geloso visitato da un Alberto Sordi più intento a scrutare le forme esuberanti della di lui consorte che auscultarne la schiena in Il medico della mutua di Luigi Zampa del 1968, l’usuraio Roberto, borioso e poi all’improvviso, in disarmo davanti alla ben diversa durezza di Don Vito, nel Padrino parte II di Francis Ford Coppola del 1974.

Lavorò inoltre con registi internazionali, recitando in più lingue, da Charles Vidor (in Addio alle armi del 1957) a Jean-Jacques Annaud e a René Clément. Non ha interpretato parti da protagonista Leopoldo Trieste, eccetto forse il suo ruolo d’esordio, eppure la sua espressività, la sua recitazione, il suo talento catturavano lo spettatore, al pari del protagonista. 

Leopoldo Trieste è stato la prova che anche un attore sul quale non è costruito il film, con il suo carisma e la sua profondità intellettuale può dare vita a dei grandi personaggi. Il mio incontro personale con Leopoldo Trieste avvenne durante la mostra del nuovo cinema Di Pesaro nel 1995 all’epoca il direttore Adriano Aprà aveva dedicato una rassegna al cinema italiano e aveva invitato Trieste come regista del film Il peccato degli anni verdi.

Ne era seguito un interessante dibattito con il folto pubblico presente e, successivamente, mi ero presentato a lui intrattenendomi poi anche a pranzo. Nel corso della conversazione avevo avuto modo di conoscere Trieste uomo coltissimo, grande affabulatore, persino eccessivo, che mi raccontava della sua storia, dei suoi grandi amori perduti, su tutti Marina Berti che era andata in sposa poi a Claudio Gora. Speravo di poterlo invitare a Catanzaro o in Calabria, che un po’ era la sua Itaca, dove però non tornava mai, se non su qualche set cinematografico. Erano anni belli e fecondi per il teatro, e le sale erano sempre piene di un pubblico attento e desideroso di assistere agli spettacoli in cui figuravano attori di nome.

Fu così che inizio questa nostra amicizia scandita da lunghissime e gustose conversazioni telefoniche, nelle quali io prendevo appunti sulla storia del cinema italiano. Così alla fine, l’anno successivo riuscimmo a portare Leopoldo Trieste in quel di Amantea dove fu protagonista di un piccolo festival cinematografico. Leopoldo Trieste rimane una figura straordinariamente carismatica per il cinema e per il teatro, come attore e come drammaturgo che merita di essere riscoperta nel suo percorso artistico e con le sue opere innovative che hanno contribuito alla formazione della drammaturgia nel dopoguerra.

Rapito dal cinema ne divenne un’icona pur non essendo né bello né prestante, ma, con la sua straordinaria intelligenza e la grande simpatia riuscì a conquistare un pubblico e diventare un punto di riferimento per i registi di tutto il mondo


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