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Una fase dell’operazione “Market drugs” che ha portato all’arresto di 43 persone fra Bari e Bitonto e messo in ginocchio la rete che gestiva lo spaccio di droga

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Avevano messo su una holding del traffico di droga e trasformato Bitonto in una Scampia, «una enclave fortificata». Sono stati necessari quattro anni di indagini, pedinamenti, osservazioni e i racconti di diversi pentiti per mettere fine ad un giro d’affari da 30 mila euro al giorno per circa 40 chili di stupefacenti smerciati tra cocaina, hashish, marijuana e amnesia, «un’erba che ti fulmina il cervello», si legge nelle intercettazioni contenuta nell’ordinanza di custodia cautelare che, ieri mattina, ha portato all’arresto di 43 persone tra Bari e Bitonto.

Un duro colpo al clan bitontino Conte, propaggine in provincia della famiglia mafiosa Capriati di Bari. L’organizzazione era quasi militare: c’erano le vedette in strada, che venivano retribuite con 500 euro a settimana; le donne, invece, custodivano la droga e il denaro; i pusher, molti dei quali minorenni, agivano nelle due piazze controllate dal clan, il centro storico di Bitonto e la periferica zona 167, base logistica dell’organizzazione criminale.

Poi c’erano le guardie armate sui tetti degli edifici pronti ad intervenire in caso di incursione dei clan avversari. I portoni erano stati blindati, erano stati posti cancelli ovunque e installate telecamere per videosorveglianza di notte e di giorno. «Una enclave fortificata come Scampia», ha ammesso il direttore centrale anticrimine della Polizia, Francesco Messina. Così – hanno rivelato le indagini della Dda di Bari – era organizzato il clan bitontino capeggiato dal boss Domenico Conte. Sono gli stessi collaboratori di giustizia a definire la cosca una vera e propria «azienda» del traffico di droga.

E come in ogni azienda, i lavoratori percepivano stipendi: dai 500 euro settimanali per le vedette ai 1.500 euro per i responsabili per le piazze di spaccio, ai quali spettava anche un premio di produzione, un bonus mensile di cinquemila euro calcolato su determinate soglie di fatturato. A Natale, poi, il capo regalava ai suoi dipendenti anche bottiglie e panettoni. Ma imponeva anche rigide regole: orari di rientro a casa, responsabilità diretta del materiale affidato, fosse droga o armi, rigida compartimentazione delle informazioni all’interno del gruppo per garantirne l’impenetrabilità.

E se i clienti venivano fermati dalle forze dell’ordine che sequestravano loro la dose appena acquistata, il clan li risarciva con un’altra dose per fidelizzarli. Un sistema attraverso il quale il gruppo criminale garantiva anche una sorta di «welfare» al territorio, fornendo lavoro e assistenza e ricevendo in cambio omertà. Negli atti si fa riferimento anche alla circostanza che i pusher a volte usavano le case di ignari residenti, collegate da terrazzi o balconi confinanti, come vie di fuga. I fatti contestati risalgono al periodo 2013-2018.

Le indagini della Squadra mobile sono partite nel periodo più caldo dello scontro armato tra i clan Conte e Cipriano che culminò, il 30 dicembre 2017, con l’omicidio di Anna Rosa Tarantino, uccisa per errore durante uno scontro a fuoco nella città vecchia. «Troppi giovani sono ancora attratti dal mito fasullo della criminalità organizzata», anche perché su certi territori la mafia agisce come «welfare, garantendo a una serie numerosissima di persone lavoro e assistenza»: ha commentato il procuratore capo Roberto Rossi.

«Dove lo Stato non riesce ad assicurare capillarmente lavoro, assistenza e benessere, arriva la mafia, garantendo mantenimento alle famiglie dei detenuti, assistenza legale. Nelle zone ad alta penetrazione criminale il welfare lo fa la mafia, non lo fa lo Stato», ha aggiunto il coordinatore della Dda, Francesco Giannella.

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