X
<
>

Il lido “Baia delle Scimmie” dopo l'incendio

Condividi:
7 minuti per la lettura

POTENZA – Gli incendi che la scorsa primavera hanno distrutto due lidi, il capanno di proprietà di un poliziotto e un opificio di Scanzano Jonico non sarebbero stati, come inizialmente ipotizzavano gli inquirenti, un gesto di “sfida” allo Stato del clan egemone sui traffici criminali nell’area, dopo le pesanti richieste di condanna avanzate in Tribunale nei confronti dei suoi principali esponenti. Bensì il gesto sconsiderato di un ex ragazzo difficile, scampato nel 2009 a una condanna a 15 anni di carcere per i traffici di droga col boss policorese Salvatore Scarcia.

Davide Suriano

Un quasi quarantenne, sovraeccitato dall’abuso di alcool e cocaina, che avrebbe voluto punire così l’affronto subito in un bar dal dipendente di una delle due strutture balneari, e recuperare del denaro dal custode dell’altra. Quindi avrebbe provato a intimidire il poliziotto che si era messo sulle sue tracce, e a sviare le indagini danneggiando la sua azienda di famiglia.

E’ questo lo scenario ricostruito dagli investigatori della Squadra mobile di Matera, del commissariato di Policoro e della sezione lucana della Dia, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Potenza, per cui ieri mattina sono scattate le manette per il 39enne di Scanzano, Davide Suriano, accusato di incendio, tentata estorsione, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, aggravati dal metodo mafioso.

LE ACCUSE DEL FRATELLO

Stando a quanto si legge nell’ordinanza di misure cautelari a firma del gip Antonello Amodeo, a puntare il dito contro di lui era stato per primo il fratello Fabio, amministratore della Suriano Frutta, dopo l’incendio del loro opificio. Agli investigatori l’imprenditore aveva spiegato di aver notato la maggiore aggressività del fratello collegandola al suo crescente consumo di cocaina.

Quindi aveva riferito dell’«alterco» avvenuto 3 settimane prima in un bar tra lo stesso, uno dei presunti prestanome del boss del clan degli scanzanesi, Gerardo Schettino, e il guardiano del lido “Baia delle scimmie”, che avevano osato chiamarlo «infame» e «pisciaturo». Solo perché aveva confermato ai carabinieri, che lo avevano convocato in caserma come teste, le percosse subite tempo addietro in un altro locale dal figlio di Schettino e alcuni suoi amici.

LA REAZIONE ALLO SGARRO

Il rancore di Davide Suriano per quell’affronto, secondo il racconto di fratello Fabio, sarebbe riaffiorato in maniera incontenibile nei loro dialoghi dei giorni seguenti. Fino ai commenti seguiti alla pubblicazione della notizia dell’incendio, avvenuto il 15 maggio.

«Riferiva che da quando erano iniziati gli incendi – si legge nell’ordinanza, rispetto alle dichiarazioni dell’imprenditore -, suo fratello Davide gli chiedeva compulsivamente di controllare se fossero state pubblicate notizie on line sui siti locali, ed a volte sapeva degli incendi prima ancora che la notizia fosse resa pubblica».

Inoltre, dopo la visione dei video dell’incendio del lido “Baia delle Scimmie”, avrebbe commentato «peccato che non gli ho bruciato anche la roulotte», con un «evidente riferimento», secondo gli inquirenti, alla roulotte utilizzata dal guardiano.

LE ALTRE VITTIME

Il superteste del pm Antimafia Annagloria Piccininni, e del procuratore Francesco Curcio, aveva proseguito il suo racconto indicando i possibili «motivi di contrasto» del fratello col custode del secondo lido, “La Kikka”, colpito dalle fiamme il 17 maggio, senza riportare danne eccessivi, e poi due giorni dopo, quando l’incendiario avrebbe completato il lavoro distruggendone completamente le strutture. Contrasto che sarebbe consistito nella pretesa di Suriano di riavere indietro circa 9mila euro corrisposte qualche anno prima al custode per aver sorvegliato un magazzino di sua proprietà durante un periodo di detenzione per reati di natura familiare.

Quanto invece all’incendio nella proprietà del poliziotto, sono state le microspie piazzate nell’auto del presunto incendiario a svelare l’astio che nutriva nei suoi confronti, ritenendolo il responsabile di un suo precedente arresto. Tanto più in seguito alla convocazione in commissariato notificatagli nell’ambito delle indagini sull’incendio dei lidi dal momento che una telecamera di sorveglianza aveva rilevato il passaggio della sua auto in un orario compatibile con l’innesco delle fiamme.

Di qui l’ipotesi degli inquirenti di “una vera e propria ritorsione» compiuta da Suriano, «volta a “punire” (per il passato) e a “paralizzare” (per il futuro, mediante grave intimidazione) l’attività di polizia giudiziaria posta in essere» dal sovrintendente capo. «Poi è normale che una persona esce pazzo e ce l’ha con le persone, gli hai rotto i coglioni…» Queste le parole di Suriano intercettate dalle microspie. “State attenti a sto giro… che Suriano è vivo… mangia beve e dorme, e tu stai con la cacarella addosso… non se l’aspettavano questa reazione brutale…, è brutta sta reazione? Questa non è una ripresa…, è di più…, come mi vedi pazzo a me… come prima… quando trattavo la droga… so io come fare… è brutto morire morire in galera… …inc… io non ho paura di andare in galera».

A distanza di un mese dall’incendio, ad ogni modo, è stato registrato anche un possibile tentativo di depistaggio compiuto da Suriano per provare a giustificare la sua presenza sul posto a distanza di qualche ora dal fattaccio, avvenuto nella notte tre il 22 e il 23 maggio, per quello che gli inquirenti hanno considerato un sopralluogo di verifica dei danni effettivamente provocati la sera prima.

Depistaggio compiuto con un ulteriore sopralluogo e una telefonata al poliziotto in cui lui e il fratello gli rappresentavano l’intenzione di rifornirsi di arance dal suo fondo. Nonostante «la frutta da questi ricercata fosse in uno stato vegetativo poco più che embrionale, atteso il periodo», e l’ultima fornitura ai Suriano da quel fondo risalisse a circa 10 anni prima, quando c’erano ancora delle albicocche e l’attività era ancora gestita dal padre di Davide.

LA SCATOLA NERA

Fondamentale per la ricostruzione delle responsabilità di quest’ultimo anche per l’incendio del capannone della ditta di famiglia, infine, sarebbe stata la scatola nera satellitare montata sulla sua auto e associata alla polizza assicurativa contratta da Suriano per proteggersi in caso di responsabilità civile. Scatola nera che ha registrato la presenza dell’auto nei paraggi del capannone alle 23 e 22 del 26 maggio 2022. Diciassette minuti prima della chiamata ai vigili del fuoco di un residente nei paraggi allarmato dalle fiamme.

«Con riferimento ai motivi della condotta posta in essere da Suriano Davide – scrive il gip -, va osservato che nella mattinata del 25.05.2022 (…) era stato convocato presso gli Uffici del Commissariato di Policoro per il pomeriggio dello stesso giorno”. Pertanto “la spiegazione logico-razionale di tale gesto, apparentemente assurdo, può essere rinvenuta nella volontà di Suriano Davide di allontanare da sé i sospetti del suo coinvolgimento nei precedenti 4 atti incendiari, presentandosi come ultima vittima di fatti delittuosi simili che si erano verificati in quei giorni in Scanzano Jonico». In questo senso andrebbe intesa anche una conversazione registrata dalle microspie nell’auto dell’imprenditore che due giorni dopo si sarebbe fermato per parlare con dei carabinieri impegnati in un posto di blocco rivelando loro l’identità del possibile autore dell’incendio, che poi sarebbe stato il custode del lido “La Kikka”.

Nelle settimane successive, ad ogni modo, sarebbe emersa un’ulteriore finalità coltivata da Suriano, ovvero quella di «conseguire alcune migliaia di euro dai genitori». «L’incendio era cioè un monito – conclude il gip – e con esso l’indagato voleva far capire, in particolare anche ai genitori, “chi comanda” (…), ossia per far intendere alle vittime (anche dei precedenti atti incendiari) la caratura ed efferatezza criminale dell’agente, la sua indifferenza per la gravità delle conseguenze ricollegabili all’evento, contenendo il fatto (…) , anche una matrice intimidatoria, oltre che di “depistaggio” delle indagini».

Quanto alle esigenze cautelari, il giudice evidenzia i propositi di violenza registrati dalla microspie nei confronti delle vittime e delle forze dell’ordine («Allora tu Polizia mi fermi… tu Carabiniere mi fermi… io tengo duecentoquaranta colpi… io ti sparo ottanta colpi a te e ti sparo… ottanta colpi a quello.. io vengo in una Caserma… vi faccio saltare»). Quindi conferma la configurabilità del metodo mafioso, «in un territorio connotato notoriamente dall’effettiva presenza di gruppi criminali associati» come il «clan Schettino».

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE