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IL DIBATTITO più recente sulle prospettive di sviluppo del Mezzogiorno d’Italia sta efficacemente stigmatizzando una questione cruciale: l’esigenza di una vera innovazione del sistema economico-produttivo meridionale. Ed aggiungerei: anche di quello istituzionale e di quello finanziario (necessariamente correlati). Il recupero di competitività (e di modernità) dell’Europa, i cui pericolosi e strutturali ritardi sono ripetutamente stigmatizzati dagli analisti più attenti, passano anche per un nuovo protagonismo del Mezzogiorno d’Italia. Tuttavia, ad alcune condizioni. Qualche riflessione in proposito.

La prima: il Mezzogiorno ha bisogno di nuove ambizioni e nuove vocazioni. Occorre pensarlo nelle dinamiche globali. Può e deve diventare vera “piattaforma mediterranea”, cerniera tra le energie dell’africa giovane, le ambizioni dell’oriente antico e le prospettive dell’occidente atlantico. Oggi più che mai. La tradizione del “pensée de Midi” (di Audisio, Camus, Colorni, Hirschman, Braudel, Meldolesi, insieme ai contribuiti di Nitti, Salvemini, Cattaneo e molti altri) può e deve insegnarci moltissimo. È necessario ricercare nella storia tracce utili all’oggi. Occorre recuperare i “sentieri interrotti” trasformandoli in “traiettorie di cambiamento”.

La seconda: se il Mezzogiorno non vorrà auto-condannarsi ad una perenne rincorsa finalizzata sempre e solo a recuperare il divario che lo separa dalle economie più avanzate (fenomeno questo che, su piani diversi, interessa la stessa Europa e l’Italia in particolare), dovrà trovare il coraggio di impegnarsi in un salto di scala non lineare che lo affranchi dal (purtroppo) consolidato ruolo di retroguardia nella cornice dell’economia analogica a bassa marginalità e lo proietti, invece, con nuove ambizioni e vitalità, nelle dinamiche globali dell’economia digitale e di transizione ad alta marginalità.

Non si tratta di utopia o retorica. È l’occasione che aspettavamo (già colpevolmente fallita in tutte le precedenti “rivoluzioni industriali”). Esistono concrete condizioni storiche di fattibilità. La geografia economica sta velocemente cambiando. Il Mediterraneo sta progressivamente ri-diventando, sempre più, “scenario privilegiato”. Tutto questo incrocia un’altra tendenza. I grandi player tecnologici sono soffocati dall’insostenibilità dei modelli che loro stessi hanno contribuito a costruire nei territori in cui sono da sempre ubicati. Cercano nuovi contesti, ricchi di capitale umano di qualità, per delocalizzare alcune attività (in particolare quelle di ricerca, sviluppo, trasferimento tecnologico ed open innovation). Lo stanno già facendo in Sud America, in Sud Africa e nel Sud Est Asiatico.

Il Mezzogiorno è un’alternativa più che vincente rispetto alle destinazioni accennate. Lo è per il suo posizionamento e per la qualità del suo sistema universitario. Lo è perché porta in dote la tradizione plurisecolare dell’umanesimo classico e rinascimentale che si fa innovazione applicata al “saper fare” (“soft skills” preziose e molto ricercate nell’era della complessità 6.0). Il Mezzogiorno d’Italia può essere motore che innesca un inedito processo di nuova competitività per tutta l’Europa. È necessario solo attrezzarsi per agganciare ed attrarre questi flussi. Come? Con le necessarie infrastrutture e politiche (hub ed ecosistemi innovativi, strumenti di incentivazione, framework strategico, aggregazioni industriali, etc.). Affinché l’attrazione di questo tipo di investimenti non avvenga in una logica di subalternità, come purtroppo è spesso avvenuto. La rete della diaspora italica nel mondo può dare un contributo decisivo. Il PNRR e la ZES possono essere un’opportunità se interpretate con lo sguardo rivolto al futuro e non al passato.

La terza: servono politiche industriali autenticamente innovative sostenute da investimenti pubblici e privati con orizzonte di consenso e rendimento di lungo termine. Oggi, invece, siamo prigionieri di modelli e logiche di vecchio impianto ispirati da una cultura esclusivamente acquisitiva. Predichiamo il futuro, pratichiamo il passato. Vogliamo l’innovazione e ci impegniamo nella conservazione. Il profitto immediato è l’unico obiettivo. Le sfide di transizione non possono essere vinte applicando vecchi approcci. Nel passato non c’è futuro. È necessario che le istituzioni lavorino, in continuità, per realizzare obiettivi capaci di modificare le sovrastrutture permanenti. Ed è anche necessario che il capitalismo imprenditoriale e finanziario decida di investire, generativamente, una limitata quota delle proprie risorse non già per produrre dividendi a breve bensì per correggere, nel medio-lungo termine, i differenziali di sviluppo dei territori ad alta potenzialità di crescita, nella consapevolezza che da questa correzione deriverà poi, per conseguenza naturale, una remunerazione più consistente del proprio investimento: bisognerà solo imparare ad avere un po’ più di pazienza per coniugare guadagno ed impatti. È la sapienza contadina. È l’impresa privata di interesse pubblico. Chi prova a farlo è spesso visto con diffidenza.

L’esperienza dell’Harmonic Innovation Group ce lo ha insegnato. Occorre, in definitiva, una consapevole ribellione teorico-pratica. È essenziale ribaltare la cultura e la percezione corrente. Bisogna coltivare l’ambizione, ma con modestia, non perdendo di vista l’ordine dei problemi. Servirà tanta energia e soggettività sociale, diffuse e resilienti. È possibile invertire la rotta ma servono comportamenti e decisioni radicalmente nuove. Sapremo auto-sovvertirci ed essere conseguenti?

*presidente di Entopan


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