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Una discarica vicino a una fabbrica inquinante

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Tributi verdi, Stato grande ecologista solo quando c’è da incassare

Ecologisti? Sì, ma solo quando si tratta di incassare le tasse per i danni causati dalle attività inquinanti. Allora fissiamo le imposte, calcoliamo le aliquote per l’impatto negativo, quantifichiamo la fiscalità verde, che nel caso italiano è più alta in rapporto al Pil della media europea. In questa capacità di misurare la riduzione del danno siamo bravissimi.

Peccato che dei 53 miliardi di euro entrati nel 2021 nelle casse dell’erario a titolo di risarcimento solo l’1% sia vincolato alla tutela dell’ambiente. Lo danneggiamo, ne sfruttiamo le preziose risorse, chiediamo alle aziende energivore di ripagare i danni ma sono siamo tenuti a ripararli. Anzi. In teoria potremmo anche reinvestire quella montagna di soldi proveniente dai “ristori” per fare altri guai.

Ambientalisti un tanto al chilo, insomma. Liberi di tassare a piacimento ma senza vincoli di scopo. È una prerogativa che riguarda una ventina di tributi “verdi” applicati da Stato centrale, regioni e comuni. I dati statistici del Dipartimento del Mef calcolano il gettito espresso in milioni di euro. Dividono le imposte per categorie, energie, trasporti, inquinanti, tracciano il grafico delle risorse.

TRIBUTI VERDI DAL 6,7% AL 7,7%

Dal 2009 al 2019 le imposte ambientali sono cresciute, passate dal 6,70% al 7,76% ma i vincoli sono rimasti gli stessi, ovvero vicinissimo allo zero. Il Servizio studi della Corte costituzionale ha condotto un’analisi comparata confrontando le diverse normative seguite da Francia, Spagna, Germania e Stati Uniti. In generale vige il principio di “chi inquina paga”: il danno causato dalle emissioni di sostanze inquinanti deve essere ripagato sotto forma di tributi con vincoli di spesa stringenti. Si fa l’esempio concreto della carbon tax per i combustibili fossili piuttosto che le emissioni sonore degli aeroplani ma anche in ambito urbano degli accessi nella Ztl o per la stessa tassa di soggiorno.

L’elenco è lungo e l’entità varia a seconda che l’imposta sia stabilita dallo Stato o dalle amministrazioni locali. “Ma il vincolo assunto a paradigma europeo del chi inquina paga – spiega Massimiliano Atelli, presidente della Commissione Via e Vas del ministero della Transizione ecologica – è applicato in Italia essenzialmente al fine di individuare il contribuente, non allo scopo di funzionalizzare in tutto o in parte il corrispondente gettito”.

È un po’ come avviene per le contravvenzioni al codice della strada, In teoria i Comuni dovrebbero utilizzare gli introiti per la sicurezza stradale, più o meno una partita di giro. Non avviene quasi mai. I bilanci degli enti già dissestati colerebbero a picco. Ed ecco che i nostri tributi verdi si caratterizzano tutti allo stesso modo: totale assenza di destinazione.

“Agitando il tema della salvaguardia ambientale – ha scritto su “fomiche.net” Atelli – si drenano dai contribuenti miliardi che tuttavia solo in minima parte vanno davvero a finanziare la transizione ecologica: in base a recenti ricerche, solo l’1% delle tasse ambientali è considerato classificabile in Italia come imposta di scopo, in quanto vincolato alla copertura di spesa di azioni a tutela dell’ambiente”. Il ministero dell’Ambiente, ricorda Atelli, nel Catalogo 2020, ultimo dato disponibile, elenca più di 60 sussidi dannosi per l’ambiente per complessivi 21,6 miliardi, stima che secondo Legambiente sarebbe salita a 40 miliardi nel 2021. È appena il caso di ricordare che il nostro Paese dovrebbe dimezzare entro il 2030 le emissioni che alterano il clima.

Nella comparazione tra Stati europei e Stati Uniti vi sono differenze sostanziali, Lì dove gli enti locali hanno potestà legislativa sono state introdotte regole molto diverse tra loro. La disciplina federale varia a seconda delle latitudini e del potere di fissare tassazioni locali. E in caso di conflitto prevale sulla legge statale. Un esempio su tutti riguarda gli Usa, dove prevale il modello command-and-control di stampo coercitivo.

La legge statale ha stabilito norme molto restrittive e penalizzanti per limitare la diffusione degli involucri di plastica non riutilizzabili senza configurare però una tassa vera e propria. A Chicago, 5 anni fa, è stata introdotta la checkout bag tax, 7 centesimi di dollaro per la vendita o l’utilizzo di sacchetti di plastica. La cifra pagata dal consumatore deve essere indicata separatamente sullo scontrino fiscale altrimenti diventa a carico dell’esercente, Nel Missouri l’House bill 722 va in senso contrario. Non si paga nessuna tassa, il sacchetto di plastica viene fornito dagli esercenti senza che venga addebitato all’acquirente. E allo Stato è fatto divieto di emettere eventuali imposte o tasse. Da noi si genera una sorta di deregulation in totale contrasto con gli obiettivi imposti dall’Ue.

“Il pregiudizio inferto all’ecosistema dai comportamenti incisi dalla cosiddetta fiscalità ambientale – scrive Atelli – resta per il 99% non riparato, perché esigenze di finanza pubblica prendono nei fatti il sopravvento assorbendo il relativo gettito”.

Poi ci sono le tasse che non potrebbero comunque raggiungere il loro scopo, come l’ecotassa regionale sui rifiuti visto che il nostro Paese li smaltisce ancora per il 20% nelle discariche. Ma questo è un altro discorso. Nel breve periodo si calcola che gli introiti derivati da queste risorse ad hoc potrebbero toccare la considerevole cifra di 100 miliardi annui.

“Probabilmente troppi – è la conclusione del presidente Atelli – per non avviare finalmente una riflessione di tipo sistemico che da un lato metta ordine e dall’altro lato funzionalizzi in misura almeno significativa queste ingenti risorse”.


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