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Yao Ming in una llustrazione di Roberto Melis

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COMINCIO’ per caso. Era il 1956. Tian Fuhal, allenatore e talent scout di basket, camminava in un mercato di Shanghai, città che allora, nella Cina di Mao, non era la New York di oggi ma un formicaio di biciclette, uomini e donne. Non pensava, come Socrate al mercato di Atene, “che bello! Quante cose di cui non ho bisogno”: Tian Fuhal aveva bisogno di tutto. D’improvviso vide “qualcosa” di cui aveva estremamente bisogno: un uomo che sopravanzava della testa e anche di più tutti gli altri, un cinese alto più di due metri. Sgattaiolò sgomitando tra la folla, lo raggiunse. “Quanti anni hai?”. “Trentaquattro”. “Vuoi giocare a basket?”. “Mai fatto, alla mia età penso che cominciare sia difficile” sorrise l’uomo che si chiamava Yao Xueming. “Hai figli?”. “Quattro”. “Alti come te?”. “Non lo so ancora, il più grande ha quattro anni”.

Tian Fuhal era un tipo previdente: mandò qualcuno a vedere i quattro bambini. Il più grande si chiamava Yao Zhiyuan. Le “autorità” lo tennero d’occhio: cresceva a dismisura, gli insegnarono il basket. Arrivò a 2,08 metri e nella nazionale di pallacanestro della Cina. Conobbe Fang Fengdi, anche lei nazionale cinese di basket. Era alta più di un metro e novanta. Se si innamorarono o invece furono l’oggetto di un esperimento di ingegneria genetica come è stato poi raccontato dagli americani quando “i comunisti mangiavano i bambini” non è dato sapere. Si sa che si sposarono ed ebbero un figlio che nacque il 12 settembre 1980 al reparto maternità dell’ospedale numero 6 di Shanghai. Pesava più di cinque chili ed era lungo più di 60 centimetri. Lo chiamarono Ming, Yao Ming. Sarebbe cresciuto fino a 2,29 metri e sarebbe divenuto “l’eroe dei due mondi” del parquet, dalla Cina agli Stati Uniti, uno dei cestisti più alti dell’Nba, a due centimetri dal record detenuto in comproprietà, a quota 2,31, dal sudanese Manute Bol e dal rumeno Gheorghe Muresan. La parità, secondo i più pignoli della misura, non renderebbe giustizia al rumeno per una questione di millimetri, meno della famosa “questione di centimetri” che rese nullo il celebre gol di Turone con il quale la Roma avrebbe tolto uno scudetto alla Juve.

Prima di arrivare lassù, Yao Ming toccò altre vette: alle elementari era già più alto delle maestre. A 9 anni era un metro e sessantacinque e portava 41 di piede. In casa Yao non sapevano come fare, i soldi non bastavano mai per seguire con vestiti e scarpe la crescita di Ming: scadevano di settimana in settimana. E, quanto al cibo, di certo quello che fornivano a scuola, che era uguale per i bambini di tutte le misure, per lui era meno che sufficiente e forse andava pure mirata da qualche nutrizionista una dieta che abbondasse in calcio, elemento chimico indispensabile alla tenuta delle ossa del “pachiderma”. Fu questo a rendere fragile lo scheletro di Ming, un gigante dai piedi d’argilla.

Il “piccolo” Yao Ming fu avviato a uno di quegli Istituti dello Sport dove si cominciavano a fabbricare campioni in serie e di tantissimi sport da quando, essendo la Cina tornata nel consesso delle nazioni sportive per la riammissione nel Comitato Internazionale Olimpico, dal quale era stata espulsa per rappresaglia occidentale quando Mao prese il potere e i nazionalisti si ritirarono nell’isola di Taiwan, il conto delle medaglie olimpiche era considerato un biglietto da visita della grandezza di un Paese. La Cina tornò ai Giochi Olimpici dopo quasi mezzo secolo di assenza, a Los Angeles 1984 e fu la prima volta della nuova Cina. Per il “piccolo” Ming dovettero costruire un letto su misura.

A Yao Ming quello sport non piaceva: “Il basket mi annoiava: ho continuato per rispetto nei confronti dei miei genitori” ha confessato una volta. A 13 anni era alto due metri e le proiezioni degli studiosi antropometrici lo previdero a 2,23 metri quando fosse arrivato il picco dello sviluppo. Si sbagliarono per difetto. L’anno dopo Yao Ming venne arruolato nella squadra junior degli Shanghai Sharks, gli squali di Shanghai. Cominciò a mettere in colonna numeri da calcolatrice ed a farsi notare nel suo sconfinato Paese. A 18 anni entrò in prima squadra. A 20 era a Sydney, alle Olimpiadi: la sua Nazionale si classificò decima, avendo in squadra anche Wang Zhizhi, con cui più tardi, insieme con Mengke Bateer, l’unico cinese ad aver vinto l’anello dell’Nba fin qui, avrebbe costituito “The Great Wall Walking”, la Grande Muraglia che cammina.

Tornò senza medaglie ma con una ben fornita collezione di spille e distintivi che era riuscito a recuperare tra gli atleti del Villaggio e il dono di questo tesoretto gli servì ad aprire una breccia nel cuore di Ye Li, cestista e nazionale anche lei, a sua misura essendo alta 1,90. Anni dopo l’avrebbe sposata. Oltre a Ye Li, Ming conquistò anche lo scudetto cinese del basket ed oltre che su di lei fece breccia anche nel cuore (e nel portafogli) dell’Nba. Cosa meglio di un gigante cinese per andare alla conquista di quel grande mercato che stava per aprirsi in Cina e per allargare gli orizzonti del più professionale e professionistico fra gli sport? Si formò una task force di agenti, avvocati, commercialisti: bisognava convincere Yao Ming, la squadra di Shanghai, la Cba, cioè la Federazione di basket cinese, e il Governo di Pechino. Ogni convinzione in più costò percentuali da sottrarre all’ingaggio del gigante. L’ultima condizione fu: dovrà essere la prima scelta al draft del 2002, quando le franchigie Usa ingaggiano nuovi campioni. Gli Houston Rockets, che erano i contraenti americani, vinsero il diritto alla prima scelta (la cosiddetta “pallina d’oro”: avevano l’8,9 per cento di probabilità ma i sorteggi talvolta vanno bene…).

Yao Ming arrivò nel Texas. Stentò ad ambientarsi tanto che alla prima partita segnò… zero punti. Charles Barkley, ex giocatore e ora commentatore, scommise in diretta tv con Kenny Smith che avrebbe “baciato il suo culo” (ass) se mai Yao Ming avesse segnato più di 19 punti. Dopo qualche partita Ming ne fece 20. Barkley si salvò: “ass” vuol dire anche asino, ne comprò uno, lo regalò a Smith e lo baciò. Come compromesso, lo baciò sulla natica. L’asino apprezzò: non scalciò.

Yao Ming continuò nell’Nba, molti punti e “zero tituli”, però alla votazione per l’All Star Game prendeva più voti di Shaquille O’Neal: Chinatown si mobilitava. Ma non solo quella. Ebbe parecchi infortuni, specie ai piedoni. E fu costretto al ritiro a 33 anni.


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