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Ugo Frigerio, illustrazione di Roberto Melis

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Fiato alle trombe! Il maestro della banda militare che accompagnava le premiazioni nello stadio di Anversa, Olimpiadi del 1920, dette il “la”. Subito, colte le prime note, qualcuno tra il pubblico intonò a piena voce “Che bella cosa è na jurnata e’ sole” e il karaoke si fece coro all’inciso “Ma n’atu sole, cchiù bello, oi né, ‘o sole mio sta nfronte a tte, ‘o sole, ‘sole mio, sra nfronte a tte, sta nfronte a tte”. E il re? Che fine aveva fatto il re della “Marcia reale”, quella che cantava “Viva il re! Viva il re! Viva il re!

Le trombe allegre squillano. Viva il re! Viva il re! Viva il re! Con esso i canti echeggiano” che era l’inno nazionale prima che si destassero l’Italia e i Fratelli? Se lo chiedeva Ugo Frigerio, ragazzo milanese non ancora diciannovenne, figlio di fruttivendoli che “tenevano negozio in via Tivoli” come avrebbe scritto lui, apprendista tipografo alla Gazzetta dello sport, posto di lavoro alla linotype di fianco a quella di Fernando Altimano, che era stato il primo italiano vincitore di una medaglia olimpica nell’atletica, a Stoccolma 1912, e dal quale il ragazzo Ugo aveva imparato, per imitazione, i segreti di quella faticosa specialità della marcia, «un modo di correre per andare più piano» come avrebbe sottolineato, molti anni più tardi, con “toscanaccia” ironia, un grande commissario tecnico di ciclismo, Alfredo Martini.

Ugo aveva appena vinto la finale della 10 chilometri ed era diventato il primo uomo d’oro dell’atletica azzurra (fu ad Anversa la prima volta che l’azzurro comparve ai Giochi: prima l’Italia andava in bianco). Sarebbe stato anche il secondo qualche giorno dopo, e il terzo quattro anni dopo a Parigi 1924. Frigerio aveva tagliato il filo di lana, che ai tempi era una realtà e non una fotocellula, un raggio laser, urlando a piena voce “Viva l’Italia”. Sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica, come l’arco e la freccia di Bolt, il Mobot di Mo Farah, il mitra di Batistuta o la pistola di Suarez, la maschera di Dybala o il ciuccio di papà Totti.

Frigerio aveva vinto anche la batteria del giorno prima: Il suo crono era stato straordinario: 47:05.4, più di cinque minuti meno del vincitore dell’altra batteria, un tempo da record del mondo. Poi i giudici capirono che avevano fermato la gara al termine del 24esimo giro anziché aspettare il 25esimo: confermarono l’ordine d’arrivo ma, naturalmente, cancellarono il tempo da record. Ugo si preoccupò che avvertissero subito la sua mamma e le raccomandassero di andare da quel giornalista vicino di casa, che così poteva mettere la notizia sul giornale. Se ne occuparono tutti: anche la “Domenica del Corriere” gli dedicò una delle celebri “tavole” di Achille Beltrame: era nata la celebrità di quell’atleta che venne chiamato il “Fanciullo di Anversa”.

Due giorni dopo il marciatore si presentò ancora nello stadio di Anversa per la gara sui 3 chilometri. Era pallido e cenciato: alla vigilia avevano dovuto portarlo d’urgenza da un dentista perché un dente gli faceva “un male cane”. Aveva in mano qualche foglio: erano gli spartiti delle marcette che suggerì al maestro della banda di suonare durante la gara e l’ultimo era quello della “Marcia Reale” che, parola di Ugo, avrebbe dovuto suonare alla premiazione. Fu di parola, anche se dopo la vittoria la prima cosa che chiese fu di essere accompagnato da un dentista, “uno bravo, uno pratico” perché quello della vigilia gli aveva estratto un dente sano.

Quattro anni dopo, a Parigi, la gara dei 3000 metri non c’era più ma soltanto quella dei 10 chilometri. Frigerio la vinse di nuovo. Il suo secondo impegno parigino, che poi per ragioni di calendario era stato il primo, fu quello di alfiere della squadra italiana. Vinse la gara a modo suo, con il solito “Viva l’Italia” finale. I giudici gli fecero passare qualche minuto d’ansia: lungo la pista erano stato messi quattro secchi d’acqua perché i concorrenti potessero non rifornirsi ma almeno rinfrescarsi in corso d’opera. Appozzare la mano nel secchio conduceva a qualche movimento scomposto dei marciatori e i giudici si posero la questione se tali movimenti non fossero da squalifica per l’ortodossia del passo di marcia. Alla fine decisero per il no. E Frigerio conservò il terzo oro.

Partì per una tournée in America, dove si esibì insieme con Paavo Nurmi: mise da parte un gruzzolo che gli avrebbe consentito di diventare produttore di formaggi, attività cui si dedicò presto, anche perché la marcia era stata cancellata dal programma olimpico di Amsterdam 1928. La rimisero nel calendario per Los Angeles 1932 e la proposta era quella di un “massacro”: la distanza dei 50 chilometri. Ugo si rimise in marcia. Questa volta arrivò terzo e prese il bronzo. Per due settimane dovette restare a letto con i piedi che ribollivano. Non marciò più: si mise a produrre formaggi ed a scrivere l’autobiografia. Quel giornalista, con il quale era rimasto in contatto, scrisse una breve prefazione: «Mi è caro prefazionare con queste poche linee il libro del camerata Frigerio. Egli, carico d’allori degnamente meritati, non si è insuperbito. È rimasto il Frigerio che io conobbi, figlio di popolo, in uno dei quartieri più popolari di Milano nei tempi di dura lotta per la Rivoluzione». Il giornalista era Benito Mussolini.


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